RENZO FRANCABANDERA | Ci sono gli spettacoli. E gli spettacoli di cui si parla, perché magari introducono temi, affrontano questioni complesse, di regia o di tematica drammaturgica, in un modo che divide.
“Invidiatemi, come io…” di Tindaro Granata è senz’altro fra questi. Affronta il tema della pedofilia partendo da un caso di cronaca.
I personaggi di fatto sono gli stessi della vicenda reale; i nomi nello spettacolo vengono modificati per renderli più immaginifici e universali. Lei (una sorta di Bovary di provincia, insoddisfatta e in cerca di meglio, M. Granelli), suo marito (ingenuo, incapace di vedere cosa gli succede attorno; T. Granata), l’amante di lei (e datore di lavoro di lui, il pedofilo, si scoprirà; P. Li Volsi), la madre di lei (lucida ma protesa nella difesa della figlia; B. Pesce), la sorella del marito (legata da un rapporto morboso al fratello F. Porrini), una vicina (G. Senesi), altri personaggi (il prete, passanti ecc). E la bambina. Che non è in scena, non compare, viene narrata dalla vicenda.
Ciascuno dei personaggi, bambina esclusa, ricostruisce la sua parte di realtà, in una struttura narrativa da inchiesta televisiva, che non porta quasi mai i protagonisti a dialogare tra loro, facendo piuttosto seguire micromonologo a micromonologo.
Il motivo è evidentemente esaltare la condizione di assenza di dialogo in questa micro società, per poi sviluppare il narrato nel finale con le risposte date da ciascuno al magistrato inquirente.
La scena è vuota, eccezion fatta per alcune finestre appese e dal cornicione deformato, che occupano l’anteriore sinistro e il posteriore destro dello spazio scenico. Sul fondo un mobiletto sovrastato da una piccola tv. Qualche sedia.
La vicenda inizia perfino con tono leggero e metateatrale, con Granata che recita le sue battute (unico fra gli attori, per verità, e anche questo è un tema non chiaro) in modo antinaturalistico, prima nella parte di un passante, e poi nella parte del marito tradito, accentuandone la dimensione intontita e paesana. Ben presto, però, la vicenda prende consistenza drammatica e si capisce che si parla di pedofilia.
Si registrano reazioni diverse del pubblico, che per certi versi ha persino difficoltà a poter lasciare senza dare nell’occhio la sala, ove mai intenzionato, per via della scalinata a ridosso della scena. Qualche risatina scarica-tensione su questa o quella battuta.
L’escalation sia di crudezza verbale che della vicenda culmina in un monologo breve ma deflagrante del pedofilo, che descrive in maniera netta, quasi chirurgica, la sua violenza, come avverrebbe in una chat fra appassionati del genere.
Sulla sala cala il silenzio, ed è evidente che il rapporto pubblico-scena diventa l’elemento cruciale dello spettacolo, per quanto si voglia parlare poi delle singole prove attorali (nel complesso buone, con la Granelli sempre ricca di quella modularità espressiva capace di farsi amare e odiare insieme nello stesso istante, con una semplice levata di sopracciglio).
Il tema è quello, perché l’approccio drammaturgico, a differenza di Hamelin di Mayorga, altro testo recente sul tema che ha avuto in Italia diversi allestimenti anche in questa stagione, è molto centrato sull’escalation di violenza delle parole in corrispondenza col climax della vicenda: lo spettatore, cui già lo stomaco va in subbuglio al pensiero, è costretto a sbatterci la faccia.
E’ poesia, non è poesia? Vale la pena esprimersi? In altra riflessione qui su PAC viene indagata la questione con ricchezza di argomento. In questa sede ci concentriamo su quanto questa scelta sia o meno funzionale al raggiungimento di un esito maggiormente alto, teatralmente parlando. E’ chiaro che la cosa è molto voluta dal giovane drammaturgo, che nel suo precedente spettacolo, Antropolaroid, aveva raccontato uguali crudeltà ma in assenza di parole, preferendo mimare le violenze. In sottrazione.
Si ricordano meno? Onestamente non mi pare di poterlo dire. E’ certo che la mazzata verbale, che non risparmia venute di qua e di là, orifizi, urla, scuote il pubblico, chiamato quasi a correità. Resterà “Invidiatemi” come momento di svolta del linguaggio teatrale? Sdogana la crudezza a teatro, come fece al cinema Tarantino, suscitando vespai sul fatto che fosse o meno arte?
Ecco, se il resto di “Invidiatemi” fosse grandissimo teatro e non solo buon teatro, forse la cosa sarebbe più facilmente accettata. Ma in “Invidiatemi” il contorno di quella scelta radicale non è segnato, in tutta onestà, da esiti letterari colossali, battute memorabili, dialoghi fulminanti fra killer a proposito del sistema metrico decimale parlando di panini fast food, o un pazzo folle che recita la Bibbia prima di trucidare tre ragazzi, dopo aver scolato mezzo litro di coca cola. Certo lì è magari la California e qui la provincia di Perugia ma lì le scene rimangono impresse insieme a tutto il film, in un susseguirsi di creatività che fa congruenza. In “Invidiatemi”, pur nel grandissimo ritmo della drammaturgia, nella prova di squadra e dei singoli, nella sostanziale riuscita del lavoro, la continuità altissima del crudele tale da farsi trucida poesia probabilmente non arriva fino in fondo, impedendo lo scarto verso l’universale del progetto di composito affresco dell’abisso umano, come era maggior intenzione del regista; la pièce rimane più vivamente impressa per il tema della pedofilia, che devasta certamente lo spettatore con una crudezza, nel finale, che resta martellante a lungo dopo. E non è male, come risveglio delle coscienze, se è vero, come è vero, che l’Italia è fra i paesi in cui il turismo sessuale verso località di prostituzione minorile raggiunge livelli molto superiori rispetto ad ogni altra nazione al mondo.
E’ su questo che potrebbe utilmente interrogarsi Tindaro Granata, per mettere con il suo talento nei prossimi lavori davvero sotto scacco concettuale lo spettatore, piuttosto che spingerne nei fatti la gran parte a puntare il dito su questo o quel personaggio, mormorando dissenso, come se i personaggi fossero le persone vere (nella nostra replica è capitato un unisono a mezza voce contro la vicina impicciona, ad esempio).
Ciò significa, infatti, che qualcosa della finzione scenica non ha funzionato, che in ballo era lo stomaco più che la testa: Brecht avrebbe avuto da ridire. E noi, su questo, pure. Certo con le dovute proporzioni. Come Granata e Tarantino.
Granata allo stomaco: lo spettatore faccia a faccia con la crudeltà
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