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VINCENZO SARDELLI | Le statistiche dicono che una donna su tre vive come vivo io, in bilico. È vero, io sono un’equilibrista, sono stata addestrata a farlo, cammino su un filo, procedo attenta per evitare i passi falsi perché so che se sbaglio, se non presto attenzione, mi faccio male».

Il Teatro della Cooperativa di Milano ha appena ospitato Home sweet home, produzione Quelli di Grock, spettacolo sulla violenza di genere. In Italia sono 6.743.000 le donne tra i 16 e i 70 anni che hanno subito vessazioni psicologiche o sessuali fuori o dentro le mura domestiche (fonte Istat 2007). Un dramma diffuso, eppure nascosto dietro una coltre di reticenze.

Il teatro la sua parte la fa. Nell’ultimo anno ci è capitato di vedere, oltre a questo Home sweet home (regia Valeria Cavalli e Claudio Intropido, in scena Giulia Bacchetta e Andrea Robbiano) anche Indolore di César Brie e Alice cara grazia di Filippo Renda e Valentina Picello.

Stili e linguaggi diversi, quasi antitetici. Per César Brie è immorale trattare la violenza se non in termini sfumati. La scena di Indolore è un ring di pugilato. Ma le percosse sono sugli oggetti, mai sulla persona.

In Alice cara grazia i simboli diventano orpelli metaforici tali da distogliere l’attenzione rispetto alla storia. Brie ha trovato lo spettacolo bellissimo, lui ha questa devozione per l’allegoria. Ma quante vittime di violenza che avessero visto Alice ne avrebbero tratto spunto non dico per denunciare, ma almeno per riflettere sulla propria condizione?

Home sweet home ha ricevuto il Patrocinio Ufficiale della Provincia di Milano ed è stato presentato nel giugno 2010 alla Camera dei Deputati. Chissà da dove nasce questo titolo inglese, che in italiano ha la sua traduzione naturale, «casa dolce casa».

Lo spettacolo vuole scuotere dall’indifferenza perché anche dal palcoscenico arrivi un messaggio capace di promuovere la cultura della non violenza. Una madre e un figlio narrano una storia apparentemente normale, che nasconde verità terribili. Teatro civile, dunque. Che ha la sua genesi nella cronaca, come dimostra la scelta di fare della scena un lastricato di giornali.

Meno scontato l’uso di un velo diafano come quarta parete, che taglia il palco quasi all’altezza del sipario. Di là da questo diaframma, illuminata da un raggio caravaggesco, compare una donna, madre e moglie. È Anna. Il nome palindromo invoca una reversibilità: dal vortice della violenza può esserci ritorno.

Di qua dal diaframma, in costante contatto con il pubblico, un figlio, sorta di narratore esterno. Anche lui è in bilico: tra la debolezza del padre, mascherata da potere annientatore, e quella di una madre incapace di reagire.

Dolore e fragilità oltre il velo, umorismo sopito vicino a noi: percepiamo che l’uscita dal tunnel è legata a quel figlio, alla sua capacità di schierarsi, librandosi oltre la meschinità: «E tu sarai ogni giorno più bella e ogni giorno più libera. Un giardino in cui è sempre primavera. Io non so volare. Ma se mi prendi per mano, mamma, possiamo provare a camminare insieme».

Tra cronaca, poesia e fiaba, storie d’ordinaria misoginia e qualche luogo comune, emerge l’insana complicità fra vittima e carnefice, il complesso rapporto tra chi fa del male e chi pensa di meritarlo, la fatica e la paura di riconoscere il nemico seduto accanto sul divano.

Convince il mix tra i due personaggi, sardonico e leggero Robbiano, tragica e solenne (un tantino impostata) Bacchetta: bel connubio di voci e di stili. La musica da film sentimentale di Gipo Gurrado è un valore aggiunto che fa da contrappunto alle vicende narrate, sostenute dalle belle immagini in controluce di Zoe Vincenti. Energico il testo, intriso di sfumature. Poi le luci di Claudio Intropido si fanno verdi, livide, rossastre. È il la all’escalation di violenza dell’ultima scena, che non vediamo sul palco, ma ci raggiunge attraverso immagini stilizzate, rumori sinistri, urla, suppliche, lacrime sospiri. La voce maschile fuori campo, ruvida, sfidante, insopportabilmente efferata, è di Pietro De Pascalis. I toni s’inaspriscono pletorici. Quasi sembra ci sia compiacimento nell’esibizione di una violenza torbida e ripetuta.

C’era bisogno di questa insistenza? Sì secondo l’autrice, Valeria Cavalli: «Tendiamo troppo a edulcorare la pillola della violenza contro le donne. Qualche giorno fa in farmacia ho visto la pubblicità di una crema per mascherare i lividi. C’era il viso tumefatto di una donna, e per confondere le idee, c’era anche il messaggio che quella crema potesse nascondere il tatuaggio di un uomo. Ad abbassare i toni, temo che il mio teatro assomigli a quella crema. Molte donne violate che hanno assistito allo spettacolo hanno ritenuto indispensabile la scena finale in tutta la sua crudezza. Proprio perché urta le nostre sensibilità quiescenti. E poi questo lavoro si vale della consulenza di una psicologa, Maria Barbuto».

Sarà. Noi abbiamo una visione delle tragedie più classica: quella per cui il pathos sublima in consapevolezza, per giungere alla progressiva e catartica mediazione dei conflitti. Come in Eschilo, Sofocle ed Euripide. Geni di venticinque secoli fa.