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MATTEO BRIGHENTI | Giovanna D’Arco, nella versione letteraria di Maria Luisa Spaziani, sei canti in ottave di endecasillabi senza rima e un epilogo, regia di Andrea Chiodi, è la costellazione di una giovane donna che insegue un sogno: essere se stessa. La Pulzella d’Orleans, vista al Teatro Cantiere Florida di Firenze, ha il coraggio di ascoltare la chiamata divina della libertà e di praticare la fatica di condividerla. Elisabetta Pozzi incontra l’instabilità di quell’anima, cuore, spada e fede della riscossa francese nella Guerra dei Cent’anni, con movimenti piccoli e controllati, amplificati di rabbia limpida e sofferta dalle sferzate rock delle musiche di Daniele D’Angelo. L’elettricità, però, della nuova produzione Elsinor si fa presto affannata e il fervore emotivo iniziale cade nel passo indifferente della freddezza più distante.

Vestita di una tunica grigia color terra (minimali i costumi di Ilaria Ariemme), quasi un saio verginale, i capelli rossi tagliati corti e combattivi, Pozzi si aggira in una scena completamente vuota. È un fantasma tra i fantasmi delle “voci” che la accompagnano, due quante sono le anime di Giovanna D’Arco, una terrena e l’altra divina. Simonetta Cartia e Francesca Porrini, in lungo abito “talare” blu metallizzato, sono vestali che armonizzano a cappella le visioni della Pulzella, perché “la musica è l’anticamera di Dio.” Bocche divinatorie e mani creatrici dello spazio (efficaci le scene di Matteo Patrucco,accese di luci rarefatte da Marco Grisa): al dipanarsi dei fatti storici, più o meno potentemente filtrati dalla fantasia linguistica della Spaziani, Cartia e Porrini conficcano nelle assi del Florida quelli che sembrano squarci, ritagli delle grandi vetrate di una chiesa romanica con raffigurati l’Arcangelo Michele, eserciti, vittorie e sconfitte, tarocchi di un presente che cerca di diventare futuro, ma per il momento è monco di un braccio, uno sguardo o una direzione. Chi li completa, la metà di tutto, in questo mondo, è Giovanna D’Arco, il suo esempio dà parole e azioni alle tessere di quel puzzle di eventi altrimenti muto e inerte. L’identificazione con la Francia è completa, cellule e sensi sono un tutt’uno con la Patria irredenta.

Il popolo, però, non ha mai visto una forza così determinata e la rifiuta come disumana, al di là del bene e del giusto, e la manda al rogo delle sue paure. Da una posizione uguale e contraria, Elisabetta Pozzi aderisce agli slanci di Giovanna D’Arco con il riserbo di chi sa già come andrà a finire: c’è un vuoto d’aria, uno spazio tra attrice e personaggio, tra rappresentazione e verità, come quello che allontana la pedana su cui si svolge l’azione dal palcoscenico che, invece, la presenta soltanto. Per questo, più che impersonarla, sembra raccontare, in prima persona, la Pulzella. L’afflato visionario è appannato di algido distacco, la distanza, temporale e anagrafica, tra lei e la giovane eroina misura un disincanto incolmabile. A Elisabetta Pozzi rimane solo la compassione di una madre, avvilita e fiera allo stesso tempo: sua figlia voleva cambiare le cose e ha fallito. Ma ha rivendicato se stessa. Quello che lei, fino alla fine, non è riuscita a fare.

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