Appartamento_1221_del_st._francis_hotel_di_s._francisco,_5_settembre_1921SILVIA TORANI | Nel gergo musicale con il termine “suite” si intende una composizione per strumento solista, orchestra o complesso da camera divisa in quattro movimenti di danze dal ritmo diverso. Nel corso degli anni ’60 e ’70 il termine tornò di moda nell’ambito della popular music, tanto che nel 1976 Neil Simon poté sfruttarne l’ambiguità semantica e intitolare la sua commedia in quattro atti California Suite. Una suite ispirata alla California e ai suoi miti, a Hollywood, ai pionieri e alla corsa all’oro, per un viaggio attraverso la deforme mediocrità dei desideri umani.

Quella portata in scena al teatro Manzoni di Roma, dopo una lunga tournée in giro per l’Italia, è una versione leggera, senza pretese, con riduzioni e aggiunte al testo originale: su uno degli episodi più famosi, quello della prostituta ubriaca nel letto del marito infedele, si innesta un secondo atto inedito, che segue i personaggi dieci anni nel futuro, per trovarli ancora (in)felicemente devoti alle loro schiavitù. Persa la struttura quaternaria della suite musicale, sopravvive però l’eredità fisica e iterativa della danza.

Gianfranco D’Angelo e Paola Quattrini, star incontrastate di questa commedia a due voci, percorrono la scena in una parodia di balletto, una coreografia che rincorre la comicità circense e impacciata di Stanlio e Ollio. Marvin, bugiardo cronico con pretese di furbizia e autorità, e Millie, moglie svampita e ingenua, si spartiscono gli archetipi che furono il marchio di fabbrica del duo hollywoodiano. Declinazioni contemporanee di clown bianco e augusto, allestiscono un diabolico gioco di rispecchiamenti che entrambi perdono credendo di aver vinto.

Del resto non c’è dubbio che la comicità di Simon guardi a sicuri modelli cinematografici, come Chaplin, Keaton e tutte quelle star del muto che popolano il suo immaginario di bambino. Come ignorare poi il ricordo di un’altra suite californiana, quella dello scandalo che negli anni Venti coinvolse il divo dello slapstick “Fatty”Arbuckle e aizzò la nazione contro i ruggenti eccessi di Hollywood?

Le fotografie dell’appartamento 1221 del St. Francis Hotel devastato dall’orgia, masticate e digerite dalla macchina del cinema per giungere fino a noi nella suite semidistrutta del Caesars Palace di Una notte da leoni, dovettero calare un velo inquietante sulle facce bonarie e sorridenti che dallo schermo avevano a lungo confortato e divertito il pubblico americano. L’assoluta, perfetta coincidenza tra arte e vita su cui così tanto il cinema aveva investito iniziava a scricchiolare.

Lo spettacolo di Massimiliano Farau riesce a rendere conto, involontariamente, di questo che è in fondo il trauma del moderno: una suite troppo spoglia, troppo candida per ospitare il quotidiano dramma dell’umano. Sullo sfondo una gigantografia posterizzata del Sunset Boulevard, strada icona della società dello spettacolo da Gloria Swanson a Lynch, sede dello scandalo, luogo del rimosso, spazio del cortocircuito. Ecco così trasparire, oltre il cabaret e le improvvisazioni comiche tra sala e scena, l’orribile volto del Reale con cui ridendo cerchiamo di venire a patti. Ancora.