officine9giugnofotoLAURA NOVELLI | “OFFicine”: dinnanzi al titolo di una variegata rassegna come quella che si è svolta le sere scorse al teatro dell’Orologio e all’Argot di Roma (e, ricordiamolo, frutto di un bando indirizzato alla creatività teatrale delle nuove generazioni cui hanno aderito numerose realtà) sembra inevitabile un’analisi che tenga conto del termine scelto come titolo (senza dimenticare quell’OFF marcato con le maiuscole) e, tanto più, della sua radice etimologica. Dunque: officina viene dall’antico termine latino opificīna (laboratorio)che a sua volta deriva ovviamente da ŏpus (opera). Sembra scontato e un po’ scolastico ma è un necessario punto di partenza per osare una riflessione a riguardo. Ragionando sull’etimologia, ancor meglio mi radico, infatti, nella convinzione che in un’officina si debbano prevedere una fase “laboratoriale”, e cioè di messa a punto di prodotti in fieri, ma anche un approdo – in questo caso artistico – in grado di costruirsi come “cosa” a sé, finita e, parlando di teatro, comunicativa alla testa (lasciamo perdere le emozioni, per carità) del pubblico. Ciò presuppone che nel lavoro in costruzione si possano già intravedere, allo stato embrionale o in forme più evolute, gli eventuali esiti scenici cui si aspira. O per lo meno delle idee, delle estetiche, delle provocazioni, dei puntelli intellettuali o stilistici che in qualche modo preannuncino l’ŏpus. Non è perciò facile giudicare venti minuti di spettacolo (questa la durata approssimativa dei singoli studi) e tanti anni di frequentazione teatrale e di esperienza come osservatore critico del Premio Dante Cappelletti (al cui format questa rassegna in parte rassomiglia) mi hanno allenato ad una certa cautela.

Ritorno rigorosamente ai fatti: ho partecipato alla vetrina romana la prima e la terza sera (il 9 e l’11 giugno) e debbo riconoscere che, soprattutto dopo la prima tornata di pièce, sono uscita da teatro alquanto perplessa. Fatte salve le buone intenzioni degli artisti e nutrendo il doveroso rispetto per chi lavora e crea, ho trovato estremamente noiosa e criptica la proposta di Mirko Feliziani, attore/autore con solide esperienze formative e professionali alle spalle che nel suo “Milk. Le Sembianze di Marion Llievski” costruisce un “musica tascabile” sul tema della diversità, con tanto di intarsi video funzionali alla drammaturgia e di canzoni eseguite dal vivo, dove intende indagare “le tante sfumature della diversità che è in ognuno di noi” (parole sue) mettendo insieme crisi identitarie adolescenziali, scenari bellici, rigurgiti rocchettari; ciò che ne deriva è un lavoro ibrido e molto poco empatico che, per ora e secondo me, non lascia intravedere un approdo significativo. Stesso discorso vale anche per “Legame” di Lara Russo, coreografa e performer milanese che l’anno scorso ha vinto il premio GD’A giovane danza autori con lo spettacolo “Allumin-io” e che in questo studio costruisce una partitura per cinque giovanissimi danzatori (tre ragazze e due ragazzi, non tutti propriamente agili e in forma, anche – presumo – per restituire l’idea di una normalità del corpo performativo che molto sembra mutuata dal lavoro di Virginio Sieni, con cui tra l’altro la Russo ha collaborato l’anno scorso per la Biennale di Venezia) dove essi si rincorrono, si sfiorano si intrecciano, si bendano gli occhi nel tentativo “di esplorare il complesso universo delle relazioni umane, di far emergere, attraverso il corpo, dinamiche di comportamento essenziali del rapporto con l’altro”. In realtà, a tratti, arriva una certa inconsapevolezza espressiva che non è tanto mancanza di perfezione o armonia (non è questo il punto) quanto difficoltà comunicativa, incapacità di trasformare i singoli pezzetti del lavoro in un “sovratono” di più ampio respiro. E questo stesso perimetro angusto, questa mancanza di spazio mentale altro l’ho riscontrato pure in “Elena di Sparta o della guerra” di e con Elena Arvigo, attrice tra le più apprezzate e apprezzabili della sua generazione, intenta a mostrarci qui una figura di donna moderna – ma per certi versi fuori dal tempo – che va girovagando con il suo baule dei ricordi come un guitto ottocentesco e racconta la vicenda mitologica della celebre moglie di Menelao da angolature e punti di vista diversi, avvalendosi anche di spunti letterari eterogenei. Se, da un lato, la presenza scenica della Arvigo garantisce un’indubbia qualità recitativa, dall’altro la drammaturgia sembra assai povera e ripetitiva e in questa fase del montaggio potrebbe portare ovunque o, viceversa, non riuscire ad andare oltre quanto (un po’ poco) già messo in campo. Dei quattro studi in scaletta, l’unico che mi abbia suscitato un autentico interesse è stato, insomma, “Dicembre” di Clinica Mammut (www.clinicamammut.it), la compagnia romana di Alessandra Di Lernia (drammaturga e attrice) e Salvo Lombardo (regista e attore) che ci ha abituato ormai da anni a lavori molto strutturati a livello ideologico ed estetico (“Col tempo”, “Il retro dei giorni”) e che qui accenna con estrema raffinatezza intellettuale al terzo movimento della trilogia “Memento mori – icone della fine”. Lavorando a più livelli sul tema del crollo della nostra società, sullo scollamento tra vecchio e nuovo, sulle responsabilità della politica (e in particolare della sinistra italiana), su uno stato di crisi e immobilismo, ci mostra in scena la figura di una donna con il volto coperto e i capelli biondi lunghissimi che parla seduta ad un tavolino e intanto toglie credibilità sostanziale al linguaggio. Dapprima monologante sospesa in un rituale di ironica (auto)decostruzione), essa poi interagirà con una seconda figura – anch’essa molto misteriosa – in uno scenario maggiormente apocalittico. Tante le suggestioni di partenza. Ad esempio? “Il Parmenide di Platone e cioè l’unico dialogo – mi racconta l’autrice – dove lo schema dialettico non è sempre presente; poi le poesie di Verlaine, il concetto di bizantinismo, il film “La leggenda della fortezza di Suram” dove i giovani, proprio come oggi, sono ostaggi di una società vecchia che non li rappresenta assolutamente”. Tanti i materiali cui dare ancora forma. Ma almeno in questo studio si intercettano pensieri e visioni generosamente protesi verso un coerente approdo finale.