saraVINCENZO SARDELLI | Un sottobosco culturale cresce nel Salento. Anche il teatro sta ampliando gli spazi. Fenomeno espressivo meno di folclore, il teatro salentino racconta un Sud che è categoria dello spirito. Affonda le radici nella storia. E predilige il dialetto come codice espressivo.

È il caso di Fabrizio Saccomanno, che nella Riserva naturale di Torre Guaceto, nel Brindisino, ha messo in scena Via, epopea di una migrazione, spettacolo sull’infausta vicenda a Marcinelle, in Belgio, di tre minatori originari di Tuglie.

Lo scenario di Via è il cortile agostano di una delle case di campagna di Torre Guaceto, oasi di terreni rossi e uliveti, specchi d’acqua permanenti, canneti e muretti a secco. E una torre in pietra viva, che guarda al mare.

La casa che ospita Via è della famiglia Barillà. Il capofamiglia ‘Ntonuccio lu calabrese è morto anni fa. Era uno dei vecchi agricoltori e pescatori di Torre Guaceto. Era stato militare nella torre durante la Seconda Guerra Mondiale. Dipingeva il tricolore su ogni oggetto della casa. Conosceva storie, antiche come l’arca di Noè.

Via, ideato con Stefano De Santis, progetto, drammaturgia e regia di Fabrizio Saccomanno, attore con Sara Bevilacqua, si vale di una scenografia semplice: proprio gli oggetti e gli ulivi del cortile, la terra scossa dal vento, due sedie. E la luce di una luna gigantesca. Saccomanno evoca Tuglie, un paese del Sud come tanti, giochi d’infanzia nelle strade assolate, deserte, alla controra. Strade, la cui toponomastica asseconda i capricci della storia, più lenta del treno che passa vicino a questo scenario, a riesumare anni in cui partire davvero era morire. Vie geografiche, Roma, Torino, Isernia. O dedicate a grandi personaggi, Bixio, Garibaldi, Vittorio Emanuele. Strade che hanno cambiato nome, come via Martiri di Marcinelle o via Aldo Moro.

A Marcinelle, l’8 agosto del 1956, morirono nell’esplosione di una miniera 262 uomini. 136 erano italiani. Sedici erano salentini. Tre di Tuglie.

«Le mani, la fronte, hanno il sudore di chi muore» avrebbero cantato i New Trolls qualche anno più tardi. In perfetto dialetto salentino, Saccomanno racconta una tragedia del dopoguerra: gli accordi tra statisti sulla pelle dei lavoratori, usati come merce di scambio per il carbone. Le false promesse di un avvenire migliore. Le visite mediche selettive, che laceravano famiglie. Il viaggio, come un rito iniziatico. I treni, sigillati per impedire che i passeggeri si gettassero in Svizzera. Gli alloggi in Belgio, ricavati negli hangar o nelle baracche dei lager nazisti. L’impossibilità di tornare indietro, pena il carcere e il ritiro del passaporto. E quelle miniere, catacombe dove erano di casa il grisou, la fuliggine, la silicosi, la notte, la morte.

Visioni surreali traducono in teatro il recupero delle memorie dei nostri migranti. In modo non dissimile da Baliani o Paolini, affine per le scelte linguistiche ad Ascanio Celestini e a Mario Perrotta, Saccomanno riproduce con esattezza la testimonianza orale. Trasforma la cronaca degli eventi in racconti dall’inconfondibile registro narrativo. La testimonianza, inserita in un contesto storico che è frutto di un lavoro di ricerca attento, diventa arte. Il teatro è racconto corale animato da voci autentiche e fantastiche, vere e verosimili, che rivelano una personale traccia autobiografica.

A dare respiro neorealista a questo documento di vita dallo sfumato tragicomico, è il volto di Sara Bevilacqua. Sara accompagna la narrazione attraverso una poetica silenziosa di sguardi tutta femminile: occhi intimoriti e curiosi, tristi e gioiosi, sconcertati e intriganti. Sara è un’addolorata del Sud con le mani chiuse sulle inferriate di un cancello. È metafora bruna di un Leviatano che divora esseri umani.

La narrazione si allaccia al passato per proporci il presente. Perché l’emigrazione è sempre opportunità, ma anche strappo. A volte, tragedia.