corradoVINCENZO SARDELLI | «Non si è mai completamente fregati finché si ha una buona storia da raccontare». Ad aprire la stagione 2014/15 del Teatro Libero di Milano è Novecento, allestimento tratto da quello che è forse il miglior lavoro di Alessandro Baricco. Se in scena c’è quel mattatore di Corrado d’Elia, autore di una serie di monologhi capaci, con soggetti, stili e sfumature diverse di appassionare un pubblico eterogeneo, il successo sembra garantito. Invece questo Novecento ci lascia una piccola smorfia.
È noto il soggetto, concepito da Baricco proprio per il teatro. Negli anni tra le guerre mondiali Danny Boormann T.D. Lemon Novecento, abbandonato sulla nave dai genitori e ritrovato sopra un pianoforte da un marinaio, trascorre la sua esistenza a bordo del transatlantico Virginian, senza trovare mai il coraggio di scendere a terra. Impara a suonare il piano da solo, un autentico genio. Vive di musica e dei racconti dei passeggeri. Sulla nave, Novecento coglie l’anima del mondo e la traduce in musica jazz.
D’Elia, in questo suo esito storico che ha girato letteralmente l’Italia negli anni passati e che torna ora al Teatro Libero in apertura di stagione, dissemina la scena di cubi bianchi a mo’ d’isole o piedistalli. Sullo sfondo, cinque pannelli verticali, alla cui base stanno fari neri, evocano tasti di pianoforte.
L’attore è un istrione color tabacco, pantaloni di velluto, cravatta, impermeabile e cappello scuri. Luci dorate o cobalto esasperano quel senso di retrò di un racconto che viaggia dalla Bélle Epoque alle macerie della Seconda Guerra Mondiale. In mezzo ricordi, nostalgie e speranze. La nave corre sull’oceano, le vite scorrono sulla nave.
C’è un paradosso negli album di e con Corrado d’Elia, Beethoven, Redenta Tiria, Non chiamatemi maestro o Notti bianche: quanto più il protagonista rimane immobile, tanto più trascina lo spettatore in un vortice di paesaggi e luoghi dell’anima.
Qui recita con il corpo, occhi allampanati, registri vocali che spaziano da tonalità soffuse a lazzi, urla e risate. L’accento è anch’esso un crogiuolo di timbri irriconoscibili. L’attore strascica le vocali, le allunga, le arrotonda in bocca. È la lingua di chi emigra, un misto impreciso di veneto e trentino che s’impasta a musiche americane anni Venti e Trenta. Un’epoca passata, pensata con gli occhi di oggi. Nulla di documentaristico, però.
C’è un paradosso nel libro di Baricco. Il protagonista è inchiodato in quella nave, con un oblò sull’infinito che la musica amplifica. L’umanità, quella individuale, quella sul Virginian, è ciò che apre alla vita e all’assoluto, in una sorta di sospensione mistica che è atarassia, sprigionata dal cuore attraverso l’arte. E allora ti chiedi che bisogno ci sia, qui, nella messinscena del Libero, di tutto quel volteggiare dell’attore, caricato, grottesco.
D’Elia asseconda la pancia del pubblico. Divaga. Un po’ troppo per i nostri gusti, per come lo conosciamo, per quel minimo confronto con Eugenio Allegri e Arnoldo Foà, precursori di questo monologo per le cui corde Baricco l’aveva tarato. Questo Novecento è l’interpretazione tarantolata di un caratterista, che riduce ai minimi termini la parte lirica intrinseca nel testo.
L’appassionato soliloquio finale non controbilancia questo mulinello: è prolisso, ci si perde. Anche la musica appare meno studiata degli spettacoli venuti dopo, nella creazione di D’Elia. Non sostiene la recitazione. Proprio quando il ritmo diventa incalzante, le note si fanno rarefatte e blande.
In Baricco Novecento è prigioniero di una nave e il mondo gli sfila, dinanzi e dentro. Nella versione di d’Elia invece è Novecento a sfilare, si mette al centro. Rinnega quel profilo basso che era il suo marchio più autentico. E ci viene in mente anche la versione cinematografica di Tornatore, il pianoforte assorto e trascinante di Morricone. Anche lì il protagonista non si agita. Piuttosto è la sua musica a evadere, ballando con l’oceano.