IMG_2535.JPGGIULIO BELLOTTO | Fa paura, sul palco del Teatro Oscar, il classico shakespeariano A midsummer night’s dream riscritto da Maddalena Mazzocut-Mis per la regia di Paolo Bignamini.

Questa “commedia degli equivoci e degli inganni” ha sempre esercitato d’altronde un certo misterioso fascino sull’immaginario collettivo, tanto da essere presa a modello da moltissimi artisti: dalla compostezza dell’overture di Mendelssohn alla visionaria innovazione di Peter Brook, l’opera si è trasmessa attraverso i secoli profondamente rimaneggiata nella forma ma essenzialmente intatta quanto a capacità di stupire ed inquietare.

Il soggetto si presta bene a sperimentazioni e fantasie d’ogni genere e la drammaturgia della Mazzocut-Mis riesce bene nel tentativo di innovare l’originale fino a sconvolgerlo. Il testo della riscrittura deriva da una serie di laboratori in collaborazione con la Statale di Milano e risente fortemente di un’impostazione a metà tra l’interpretazione accademica e la decostruzione dell’originale pezzo per pezzo, finché non ne rimane che l’essenziale.

Una coppia di attori interpreta la girandola di ruoli della piéce, che si fa sempre più frenetica e confusa man mano che un immobile Puck dall’orchesco nome di Mazapegul intreccia i destini di quattro amanti soffiando sui loro sentimenti. Al di là della dichiarata origine romagnola di questo demone nemesi di Cupido, che si intravede ma non si apprezza appieno nell’interpretazione di Ksenja Martinovic, è interessante come l’essenzialità di questo novello Shakespeare diventi pretesto per entrare nella testa di un ragazzo innamorato, Lisandro, l’amante di Ermia amata da Demetrio amato da Elena.

Il sogno del giovane occupa l’intero palco, punteggiato da bianchi palloncini sospesi come nuvole di pensiero. Attraverso i corpi degli attori che si annodano intorno alla sedia di Puck orco e si rincorrono come privi di volontà propria, tramutati ora in fate ora in muri ora in buchi se non in metateatrali comparse, il pubblico percepisce.

Percepisce, sì, perché affermare che capisca sarebbe eccessivo; l’intrico di inchiostri e la sovrapposizione di scritte di cui milioni di penne hanno impreziosito una storia di amori infelici risalente a Ovidio e ancora più in là, rende impossibile riconoscere gli elementi del dramma. Titania e Oberon sono stati espunti dalla vicenda ma in compenso Bottom e la sua sgangherata compagnia teatrale si sono estesi a macchia d’olio su tutta la rappresentazione, simboli recitanti di un’alterazione di coscienza che la scenografia essenziale vorrebbe rendere scientifica e misurabile ma che il pubblico affascinato sa bene essere misteriosa e quasi soprannaturale. Il sonno e l’oblio che esso porta con se’ rievocano necessariamente una situazione comatosa di vita non vissuta, il sogno, vero protagonista di questo adattamento – in cui persino Puck scende dal suo piedistallo di consapevole e ammiccante spensieratezza e scompare nel buio che precede gli applausi.

Mi voglio affidare alle parole della regia per trasmettere il senso di un’operazione apparentemente priva di logica. Senonché “a teatro, il corpo ascolta. Che tipo di parola, allora, giunge dal palcoscenico? […] Che cosa resta del sogno al netto dell’inganno dei sensi?”

Forse solo l’eccheggiante risata di un folletto, un riso amaro e definitivo.