eroRENZO FRANCABANDERA | Da tempo mi sono appassionato al tema dell’artista nella sua età matura, ovvero quella in cui il percorso che lo ha portato all’affermazione del suo linguaggio  si è compiuto e l’artista è ancora attivo non essendo in quella dimensione della vecchiaia che lo proietta in un universo iconico in cui l’esser stati è più importante dell’essere.

Nel caso di Cesar Brie parliamo di un rivoluzionario prestato al teatro, con un sogno forse anarchico forse trockijsta nel cassetto, insomma un sogno partito dall’Argentina in cui è nato, passato per l’Italia in cui ha molto lavorato, per la Bolivia dove ha operato da artista e rivoluzionario al fianco dei contadini senza terra restituendo loro un linguaggio, quello dell’arte, in una dimensione di impensabile povertà materiale ma grande ricchezza spirituale. Per poi tornare in Italia, di nuovo. La fuga dalla Bolivia, dopo quella dalla dittatura argentina.

In questi anni, dopo la fine dell’esperienza boliviana, come molti artisti suoi coetanei con cui pure ha lavorato (Manfredini, ecc), ha scelto di portare avanti un doppio binario di attore e regista di composizioni sceniche altrui, in questo sostenuto dalla sempre intensa attività laboratoriale presso accademie e istituzioni teatrali che gli hanno offerto volentieri spazio, come a Milano il teatro Filodrammatici o Campo Teatrale, dove l’artista ha creato un vero e proprio sodalizio culturale negli ultimi anni.

Tutto questo preambolo per dire?
Bah, diciamo per raccogliere le idee nate dalla visione ravvicinata di Ero (a Campo Teatrale), la sua nuova creazione in cui Brie è solo in scena, e di Orfeo ed Euridice al teatro dell’Elfo.
Perché Ero raccoglie un po’ tutte le esperienze del vissuto privato di Brie, le sue lontananze, le assenze e le presenze, il tema caro della rievocazione familiare di chi non c’è più, quel doloroso respiro quasi liturgico che ha il parlare con i propri avi.
In Orfeo ed Euridice, con i bravi Giacomo Ferraù e Giulia Viana, in cui Brie è regista e drammaturgo, viene rivisitato il mito, che traspone il tema del ritorno di Orfeo nell’oltretomba con il viaggio di chi deve assistere i malati in stato neurologico vegetativo, come nel caso Englaro, diciamo così, per semplificare ma anche per interdersi.

Al sodo, per quello che riusciamo ad analizzare dell’evoluzione artistica di Brie in questo momento ci sembra di rilevare alcune evidenze.

La prima è che l’artista ha chiaramente un grandissimo bisogno e giovamento nel confronto con le giovani generazioni, in cui, con il ruolo di maestro, riesce a creare dinamiche attorali interessanti e allestimenti pur non esenti dalle ruvidezze delle recite giovani, ma in cui si crea un’energia vitale particolarissima. Lo si notava in quella controversa ma non superficiale lettura de I Karamazov, o nello spettacolo Viva l’Italia, sull’assassinio di Fausto e Iaio, di cui pure siamo stati spettatori, prodotto dal Teatro dell’Elfo.
In questi spettacoli, forse, Brie, e questo è il primo concetto che vogliamo enucleare, riesce a trovare una forza creativa originale, sicuramente superiore a quella che in questo momento storico del suo vissuto artistico caratterizza le sue creazioni che lo vedono (quasi sempre) solo in scena.
Queste creazioni, ed Ero non sfugge, hanno la caratteristica di ripetere da alcuni anni stilemi e nessi, concetti scenici ed espedienti attorali che hanno il tema critico di essere sempre più “repertorio” di fantasie. Evidentemente, come tutti i grandi, il tema di ripensarsi oltre le proprie abilità, laddove queste hanno avuto un sapore marcato ed un linguaggio forte, è una sfida di difficile compimento, magari l’accettazione di uno sguardo esterno, anche affidarsi ad una regia che sappia o possa pensarti in un altrove che la tua mente in un dato tempo non vede.
Per esemplificare questo concetto basta guardare un po’ di materiale fotografico degli ultimi suoi spettacoli, con la ricorrente geografia di segni scenici sul pavimento, le presenze/assenze con le grucce e i vestiti, le corde, la delimitazione degli spazi, questioni che, pur rimanendo sempre suggestive nella sua capacità di montare bene la macchina scenica, iniziano a diventare ripetizioni di un identità forse ingabbiata in un modulo artistico che rischia di soffocare il Brie artista cosmopolita, quell’istinto garibaldino di portare la rivoluzione un po’ dappertutto.

Ed è infatti il sogno dei Karamazov in Argentina di questi mesi, dopo aver portato i boliviani con l’Iliade e l’Odissea in Italia.
In Ero, lancinante è il sentimento di assenza del dialogo con le alterità andate, ma quello di uno sviluppo dialogico delle drammaturgie è un punto che accomuna (e forse è anche il punto debole di entrambi, a nostro avviso) Ero ad Orfeo ed Euridice. Perché dove, in quest’ultimo lavoro, nella parte finale, il racconto degli eventi cede il passo all’enunciazione più ideale/ideologica, facendo venir meno un po’ un contraddittorio sugli assiomi etici di base (premesso che condividiamo la posizione di Brie e dello spettacolo), ecco, nelle enunciazioni concettuali e ideologiche più forti, dove manca il dubbio, lo scambio acre, il contraddittorio vero, sentiamo che a Brie manca qualcosa.

Ed è qualcosa che sentiamo che profondamente manca anche a lui, visto che in Ero evoca e invoca il contraddittorio con la critica, ad esempio, che maledice e di cui pure afferma la necessità, ove sia critica ovviamente di pensiero, documentata, che parta dal presupposto (non sempre scontato) di amore per il teatro.
Insomma, per stringere, e arrivare alla conclusione di questa, che in origine pensavo potesse essere una lettera aperta all’artista, che poi si è trasformata in una riflessione più ampia, non possiamo dire a Brie come vivere questo suo tempo, ma siamo più contenti quando si scontra, quando confligge, quando combatte e ci fa vedere anche l’avversario. Perché manifestare il proprio pensiero senza che nello spazio scenico compaia il nemico, l’altro, l’antagonista, popola progressivamente la scena, la fantasia, la mente, di fantasmi, piccoli, dolcissimi fantocci, che spesso sono gli ultimi ad uscire di scena e non di rado lasciati sul palco, a simboleggiare quasi uno svuotamento della forza vitale più profonda.
Invece, proprio le regie con i giovani, testimoniano che Brie ha ancora molto da dare al teatro, anche qui legittimando presenze, confronti e dialoghi nella struttura compositiva che nei suoi grandi allestimenti del passato e nelle sue migliori creazioni non sono mancate. Altre figure, compagni di viaggio e di regia, istinti più collettivi nella cabina creativa.
Si certo, erano altri tempi, altre storie, persone, amori, rivoluzioni.
Certo. Ma è il nostro tempo. E il caffè di domani è meglio farlo con una polvere diversa da quella con cui lo abbiamo fatto ieri, se vogliamo esser certi di un sapore vero, forte. E i migliori caffè sono quelli presi fra mille discussioni appassionate.