GIULIA MURONI| “6Bianca” rivela da principio la propria natura ibrida. Ideato dal talento letterario di Stephen Amidon, diretto da Serena Sinigaglia e scritto dallo stesso Amidon insieme agli holdeniani Riccardo Angelini, Sara Benedetti, Filippo Losito e Francesca Manfredi, lo spettacolo insegue la formula dei serial, nel tentativo di trovarvi una precipua applicazione in ambito teatrale. È una tensione esibita, la dialettica con il medium televisivo si esplicita nelle posture, nei costumi, nella stessa struttura drammaturgica e, soprattutto, nel format: sei episodi per un’unica vicenda, arricchita di volta in volta dalla prospettiva del differente io narrante, in un’atmosfera densa di psicologismi e colpi di scena. In un teatro Gobetti addobbato ad hoc dalle frasi di “6Bianca” (“Il suicidio è solo l’inizio/ Solo i morti sono sinceri”) i primi due episodi della serie sono stati messi in scena: “Amedeo” nei giorni 12-15 Febbraio e “Luna” 26-1 marzo.  La scena si apre su un ambiente invaso dalle macerie, la fabbrica della famiglia Ferraris, sul cui fondale Bianca scrive, rivelandolo e confermandolo, il titolo dello spettacolo che troneggia enigmatico sullo sfondo. Questo è l’episodio in cui vien data la parola a Luna, migliore amica e coinquilina di Bianca, di cui anela bellezza, ricchezza, coté familiare e via dicendo (senza scordare le scarpe Louboutin). La relazione di Luna con l’amica appare schizofrenica, tanto ricca di affetto e confidenza quanto innervata di risentimento e invidia. Ad esacerbare i sentimenti concorre la tossicodipendenza di Luna e tutta una serie di vicende collaterali legate agli altri personaggi. Le rovine polverose costruiscono un panorama suggestivo, post-apocalittico, l’atmosfera è rarefatta, sembra echeggiare il silenzio dopo un disastro. In questa scenografia, curata da Maria Spazzi, gli attori, muovendosi, spostano i detriti e cercano di trovare orientamento nello sfacelo, i segreti però non fanno che moltiplicarsi, andando a ingarbugliare una storia in cui, al momento debito, ognuno dei personaggi avrà il diritto di dire la propria.

Ph. Serena Serrani
Ph. Serena Serrani

Gli interpreti Carolina Cametti, Pierluigi Corallo, Mariangela Granelli, Daniele Marmi, Alessandro Marini, Francesco Migliaccio e Camilla Semino Favro non si adagiano sulla recitazione naturalistica consueta nei serial anzi al contrario calcano un po’ sui personaggi, assecondando probabilmente l’intento di esplicitarne la finzione, l’elemento di fantasia. I momenti corali, in cui i personaggi si rivolgono alla platea, e l’incastro di intrecci narrativi che si svelano un po’ per volta, lasciando una tensione irrisolta, sono elementi di pregio, efficaci. La nutrita manovra di comunicazione (6X3, episodi in streaming, il sito del progetto, il profilo Fb,  il “diario di Bianca”) cui si affida questo spettacolo sembra riuscita: la sala è gremita di un pubblico giovane, probabilmente incuriosito da questo formato insolito e accattivante. Forse più che Breaking Bad e Sopranos, modelli di riferimento a detta dello stesso Amidon,  “6Bianca” sembra avvicinarsi a “CentoVetrine”, format televisivo torinese doc, con tanto di riprese in piazza San Carlo. Anche in esso la trama si sostiene su un fitto intreccio di intrighi familiari e societari, torbidi ménage sentimental-sessuali, invidie, tradimenti, inimicizie e sotterfugi. Torino è lo sfondo di entrambe, e se nella soap è un grande magazzino la sede in cui si avvicendano passioni e conflitti familiari e finanziari, qui  una fabbrica, Le Chiuse, fa da sfondo ad avvenimenti della medesima foggia. Certo in “6Bianca” si parla di droga, l’ambiente è goticheggiante e gli inserti musicali hanno un sapore indie, tutti elementi improbabili all’ora di pranzo sulla televisione generalista ma, fatte queste necessarie distinzioni, il “primo serial teatrale a Torino” sembrerebbe far intravedere una continuità con quella popolarissima serie televisiva italiana in una drammaturgia un po’ di superficie, con una scarsa caratterizzazione dei personaggi e in una recitazione che non rifugge l’enfasi. Sia chiaro, si tratta di due prodotti ben differenti, rivolti ad un pubblico diverso, ma di cui si sottolinea la somiglianza nel tentativo evidente di risultare attraente per una certa fetta di spettatori, di riprodurne valori e estetiche, costumi e tendenze, compiacendolo e confermandone lo status. “6Bianca” sembra quasi il fratellino hipster, di tendenza e giovanilistico, di “CentoVetrine” et similia. Ci sorgono degli interrogativi rispetto a un’operazione di questo tipo, alla visione della cultura pop che vi sottostà e all’immaginario dei giovani e sui giovani che va incrementando. La regista Sinigaglia ha a cuore un teatro nazionalpopolare, di cui Gramsci ha ben teorizzato all’inizio del secolo scorso e secondo il quale uno spettacolo teatrale nel suo insieme poteva essere organico o meccanico, a seconda delle scelte intenzionali a partire dalle quali era agito. Se in queste scelte, l’autore, la compagnia degli attori o l’industria teatrale erano guidati dall’intenzione di soddisfare le esigenze di un pubblico “meccanico”, amorfo, passivo, inerte,  allora il testo, la messinscena e quindi l’evento teatrale sarebbero stati esteticamente privi di qualità e di conseguenza avrebbero espresso una bassa forma di socialità, intendendo con il termine socialità non una massa umana indistinta, ma un aggregato umano coeso dal bisogno spirituale di avvicinarsi all’altro attraverso il teatro. Invece, il tentativo di soddisfare i gusti di un pubblico omogeneo, non guidato, come nell’altro caso da motivi esteriori, di svago, di distrazione, o di puro e semplice intrattenimento, avrebbe condotto ad una qualità estetica dell’offerta accresciuta nel suo valore. Il teatro, secondo Gramsci, esige e cerca la dimensione pubblica corale del suo significare e del suo essere fruita e la socialità deriverebbe direttamente dal grado di organicità che l’opera comporta. Infatti soltanto un’opera organicamente riuscita sarà in grado di scuotere dalle fondamenta l’inerzia, la passività, le abitudini e i pregiudizi stratificati nell’ambiente sociale di provenienza. A partire da questa riflessioni, che Sinigaglia conosce e condivide, quali applicazioni si schiudono? È ad esempio necessario rendere “televisivo” il teatro perché  assuma una caratura popolare? Siamo certi che modernizzare i codici, tra cui non ultimo quello scenico, si debba tradurre di necessità nello scimmiottamento televisivo? È questa la socialità, la valenza nazionalpopolare che si sta inseguendo? Quale il valore organico, in termini gramsciani, di questo spettacolo? Si può tradurre una soap nel linguaggio teatrale senza tradirlo?