GIULIA RANDONE | “Allora, com’è il teatro in Polonia?”
“Molto vivo.”
“ E cosa hai visto di bello?”
Gli avi di Adam Mickiewicz, un dramma romantico di inizio Ottocento, che trae spunto dal rituale pagano di offerta di cibo e bevande ai defunti e sviluppa una visione poetica e politica, mistica e blasfema, sulle sorti dell’uomo e della nazione polacca.”
“Aha.”

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Gli avi (Dziady) è un’opera fondante della cultura e dell’identità polacca, un testo con il quale prima o poi tutti gli artisti sentono il bisogno di confrontarsi, un dramma che ha alle spalle 114 anni di allestimenti ma che rivela la sua attualità anche in epoche storiche più recenti, basti pensare che in Polonia è stato all’origine dei moti del ’68. Però è anche un’opera barbosa che i ragazzi delle medie sono costretti a imparare a memoria e che al di fuori della Polonia è pressoché sconosciuta a causa della mancanza di traduzioni (quella italiana è incompleta e datata 1898). Difficile immaginare uno spettacolo più scoraggiante per uno straniero. Ed è un peccato: le due versioni degli Avi presentate quest’anno al festival Warszawskie Spotkania Teatralne (Incontri Teatrali a Varsavia) meriterebbero di essere viste, perché il rapporto tra un popolo e i suoi testi è una delle chiavi che ci aiuta a conoscere i cittadini con cui condividiamo leggi e frontiere.

Radosław Rychcik e Michał Zadara sono due registi trentenni che lavorano sugli Avi in maniera molto diversa.
Rychcik si appropria del testo, ne estrae il tema che più lo interessa – l’oppressione, la violenza, l’ingiustizia – e con grande libertà lo trasferisce su un campo da baseball popolato di icone della cultura americana (Marilyn Monroe, le bambine gemelle di Shining, sono spiriti in visita al mondo dei vivi), e da giovani afroamericani. Uno di questi, un ragazzo nero vestito da facchino, diventa la prima vittima di un gruppo di palestrati ragazzi bianchi, che lo impicca al canestro. Al monologo prometeico e romantico di Konrad, eroe a servizio della causa nazionale polacca, subentra il celebre appello di Martin Luther King per una società senza discriminazioni. Il discorso del paladino della resistenza non violenta non verrà però coronato da uno spiritual sulla libertà, bensì da un potente blues in cui tutti gli attori cantano il desiderio di vendetta sul nemico.

Lo spettacolo è una sarabanda pop le cui luci stroboscopiche sono puntate sull’intolleranza dei bianchi nei confronti dei neri: questo livello di lettura, per quanto originale, si rivela però poco approfondito. Più interessante è che l’incapacità americana di dare vita a una nazione multietnica funziona anche come spia della separazione interna alla società polacca all’epoca in cui cercava di liberarsi dal giogo della Russia zarista. Nei momenti più drammatici e più eroici della sua lotta per l’indipendenza, la società polacca rimaneva divisa tra la nobiltà – protagonista degli Avi e quindi destinataria del suo messaggio patriottico – e i contadini, che vivevano in condizione di servi della gleba. Sul palcoscenico, l’epica nazionale abbandona le sue coordinate tradizionali per svelare la difficoltà, comune anche all’Italia e all’Europa, di costruire una società tollerante e unita. «We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal», o quasi tutti.

Michał Zadara, al contrario, non mette in scena una comunità, ma la propria sfida nei confronti di una tradizione critica che ritiene Gli avi irrappresentabili in forma realistica e sicuramente non proponibili allo spettatore nella loro interezza. Per la prima volta nella storia del teatro polacco, l’opera è allestita nell’ordine in cui l’ha concepita Mickiewicz e senza tralasciare nessun verso né didascalia. Il progetto è in fieri, verrà completato l’anno prossimo. Per ora sono già andati in scena oltre seimila versi (a differenza dello spettacolo precedente, qui non accompagnati dalla traduzione inglese), con il risultato sorprendente di non affaticare lo spettatore, che viene intrattenuto con effetti speciali e programmaticamente guidato alla scoperta della forza ironica del testo.

In questo senso, alcune trovate del regista sono molto godibili. Ad esempio, l’incontro tra vivi e defunti è rappresentato attraverso il filtro del cinema horror pseudo documentario in stile The Blair Witch Project: immersi nel buio, i volti e i corpi degli attori sono ripresi da una telecamera a mano che contribuisce a trasformare la scena, potenzialmente perturbante, in una seduta spiritica dai risvolti comici. Se le scene collettive vengono spogliate da ogni prevedibile pathos – una scelta che ha per il pubblico polacco un valore dissacrante e liberatorio – la tensione drammatica si concentra nelle parole di un giovane innamorato respinto (il bravo Bartosz Porczyk) che per quasi due ore ondeggia tra stati di esaltazione e impulsi di rabbia. Qui l’incapacità di scendere a patti con la realtà, la sofferenza, il desiderio di agire e quello di escludersi dalla società, sono esplorati in un monologo cantato e recitato che raggiunge momenti di grande intensità, annullando così ogni distanza temporale e geografica. Uno spettacolo a tratti irritante nella sua volontà di illustrare il testo, ma che irretisce lo spettatore con la bellezza e l’immortalità delle parole del poeta Mickiewicz.