NICOLA ARRIGONI | «Sottolineare il noi non vuol dire sottovalutare la dimensione individuale, quanto piuttosto riconoscere i danni dell’individualismo sfrenato che conduce alla rapacità e alla sopraffazione, mettendo addirittura in pericolo la libertà personale e portando all’isolamento e dunque a perdere di vista gli altri e lo stesso valore di una società democratica». Da queste considerazioni parte Massimo Ammaniti nel saggio Noi. Perché due sono meglio di uno, edito da Il Mulino (pagine 138 – 12 euro). In un certo qual modo il lavoro di Ammaniti va a interrogare l’urgenza di cooperazione, di condivisione che attraversa il nostro status contemporaneo, dall’atto narcisistico delle azioni mediatiche dei social network alla fatica delle relazioni che sempre più sembrano sul rischio di scoppiare, se non di implodere.
In questa riflessione sul ‘noi’ si avverte, alla fin fine, una imprescindibile tendenza all’altro e all’alterità che oggi più che mai appare urgente, determinante e a tratti salvifica. E dopotutto individualismi di ogni tipo imperversano oggi sulla scena sia pubblica sia privata. Mentre i vecchi soggetti collettivi, come partiti e sindacati, che hanno accompagnato l’età della società industriale sembrano entrati in una fase di declino. In questa situazione in cui l’io e l’individuo sembrano dover bastare a se stessi, Massimo Ammaniti cerca di dimostrare il contrario e lo fa offrendo al lettore un excursus storico e psicologico rispetto all’esigenza dell’uomo di relazionarsi con l’altro. Il neuropsichiatra infantile prende in esame le relazioni che madre e figlio intessono fin dalla gestazione e poi successivamente nel rapporto neonatale. Partendo dall’intimità fra madre e figlio passando attraverso l’analisi delle dinamiche relazionali familiari ed extrafamiliari, Ammaniti affronta in maniera sintetica e paradigmatica i passaggi che hanno portato l’uomo ad essere uomo sociale, a fare delle relazioni familiari relazioni di clan, relazioni sociali, con la divisione dei compiti, la cura dei figli, l’organizzazione del clan prima e poi delle prime forme di società.
Noi perché due sono meglio di uno offre uno spaccato psicoanalitico e antropologico del perché – a fronte di un individualismo solipsistico dei nostri anni – sia necessario recuperare il noi, la relazione, la capacità di condividere e collaborare. In questo senso la costruzione del ‘noi’ si lega al riconoscimento dell’altro, alla messa in relazione con le diversità e differenze, fino a fare di queste una ricchezza, una ricchezza destinata a formare quel noi in cui l’individualità convive con l’altro. E al concetto dell’altro e dell’alterità è dedicato il lavoro di Vincenzo Costa, Alterità (Il Mulino, pagine 218, euro 14), in cui l’autore mostra e illustra i mille volti dell’alterità, dal pensiero classico, in cui era perlopiù oggetto di indagine metafisica, alla fase contemporanea, dove la riflessione sull’alterità investe anche la maniera di pensare noi stessi in rapporto ad altre culture, la differenza tra i sessi o, infine, i meccanismi cognitivi che consentono la comprensione dell’altro. La fatica di accettare l’altro, la fatica – oggi quasi insostenibile – di entrare in relazione con l’altro, malgrado la apparente opulenza e varietà delle modalità di comunicazione e relazioni è ben sintetizzata da Ammaniti che riprende le tesi di Freud nel saggio: Il disagio della civiltà: «i rapporti con gli altri rappresentano una specie di contrappeso insoddisfacente che serve a controllare la natura pulsionale dell’uomo, profondamente egoistica e indirizzata solo al soddisfacimento personale – scrive -. Ma la vita civile non rappresenta solo un apparato difensivo organizzato nei confronti delle pulsioni è anche al servizio dell’eros che favorisce l’unione delle singole persone fino a raggiungere l’insieme dei popoli e delle nazioni».
In questo andare dall’intimo al pubblico, dalla relazione interpersonale a quella istituzionale/sociale, Massimo Ammaniti fornisce lo scenario per cui è indispensabile rifrequentare con determinazione il ‘noi’, tentare di trascendere l’io per costruire un senso collettivo, un operare insieme che non annulli le peculiarità dei singoli ma le rafforzi con l’apporto degli altri.
Si tratta di una strategia da riconsiderare e cominciara a rifrequentare perché lo scenario è quanto mai cupo e chiama in causa quelle che Gian Primo Cella definisce le ‘persone finte’, nel saggio intitolato appunto: Persone finte. Paradossi dell’individualismo e soggetti collettivi (Il Mulino, pagine 144, euro 15) in cui a fronte della crisi dei tradizionali soggetti collettivi: partiti, associazioni, sindacati la costruzione delle ‘persone finte’ è affidata a nuovi soggetti collettivi che fanno mondo e il riferimento va alle grandi imprese multinazionali dell’informatica e della comunicazione che promuovono ed esaltano pratiche e culture individualistiche per poter controllare e guidare le collettività infrante, o meglio ricomposte in base a bisogni e desideri, al consumo piuttosto che all’essere. Tre contributi quelli di Ammaniti, Costa e Cella che si crede possano offrire uno spaccato sulla contemporaneità, dire di una necessità di oltrepassare l’individualismo sfrenato, di fare in modo che l’orizzonte d’azione torni ad essere il ‘noi’, quella società del disagio – denunciata da Freud – in cui il disagio stava nel contenere il proprio ego narcisistico per frequentare una socialità condivisibile, nella consapevolezza che la convivenza implica spesso la rinuncia ai propri desideri e al proprio egoismo. Solo in questo modo possiamo tornare ad essere persone vere che si nutrono della condivisione con l’altro e non persone finte costruite sui bisogni indotti e sollecitati da multinazionali, dai nuovi signori del mondo che viviamo o crediamo di vivere.
Massimo Ammaniti, Noi. Perché due sono meglio di uno, Il Mulino, pagine 138, 12 euro.
Vincenzo Costa, Alterità, Il Mulino, pagine 218, euro 14
Primo Cella, Persone finte. Paradossi dell’individualismo e soggetti collettivi, Il Mulino, pagine 144, euro 15.