VINCENZO SARDELLI | «Tutto quello che so della vita, l’ho imparato dal calcio», disse una volta Camus. Che il calcio è metafora della vita, ce lo ricordano gli scrittori Sartre, Galeano, Saba e Pasolini, fino al sociologo Alberoni. Il calcio, centro di film appassionati come Gimmy Grimble, Sognando Beckham e Il mio amico Eric. Di canzoni: Correndo correndo, Una vita da mediano. E l’eterna Leva calcistica della classe ’68 di De Gregori, la più bella: una poesia, tante metafore, uno specchio dell’esistenza.
Andrea Barzini, titolò un film Italia-Germania 4-3. In quella mitica partita c’erano Giacinto Facchetti, capitano azzurro, e Roberto Boninsegna, che sbloccò il risultato. Due nomi legati a doppio filo ai protagonisti di Mi voleva la Juve, monologo scritto e diretto da Gianfelice Facchetti, con Giuseppe Scordio sul palco: Gianfelice, figlio di Giacinto; e Giuseppe, che dell’idolo Boninsegna, detto “Bonimba”, voleva ricalcare le orme.
Secondo Copeau «non nasce teatro laddove la vita è piena, dove si è soddisfatti. Il teatro nasce dove ci sono delle ferite, dove ci sono dei vuoti». C’è aria di famiglia in Mi voleva la Juve, di scena fino al 10 maggio allo Spazio Tertulliano di Milano. Toni onirici. Temi forti, che scavano in un dramma intimo e provano a ripulirlo tramite l’arte. Mi voleva la Juve parla di un bimbo che sognava di diventare calciatore e si è trovato a fare l’attore. Lo spettacolo esprime la poetica del calcio attraverso gli occhi di chi pensa che la palla sia ancora un gioco per bambini.
La poesia dello sport e la prosa della vita. Scordio, l’infanzia allo Stadera, quartiere periferico di Milano. I profondi anni Settanta. Le bigie atmosfere urbane. Un monolocale. Una famiglia troppo numerosa per starci dentro. Una famiglia che si spezza. Come il sogno di un bimbo che ci sapeva fare col pallone. Che giocava nella “Rossa”, la squadra dell’oratorio. E che la Juve chiamò per un provino. L’estate trascorse invano. La vita privata non cessò d’infierire.
Uno spettacolo in due parti, come un disco in vinile dell’epoca. Come i tempi di una partita. Un enorme rettangolo verde sullo sfondo. Squadre di calcio e gagliardetti appesi alla parete. Un materasso di giornali rosa. Il pallone. La maglia numero nove da giocatore, «sette giorni su sette». Il poster di “Bonimba” alla parete. Movimenti con la palla. Movimenti a gioco fermo. La crisi. La tragedia. Infine il teatro, come una zattera.
Una voce rotta a tratti, forse dall’emozione. Due sogni: il calcio, e poi il teatro. L’attore, regista e impresario Giulio Bosetti fu per Giuseppe mentore più indulgente del tecnico bianconero Vycpaleck.
«Amo il teatro perché mi ripugnano le illusioni», direbbe Eugenio Barba. «Il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita» avrebbe risposto Eduardo. Il teatro, dove «tutto è finto ma niente è falso» (Proietti). Facchetti e Scordio mettono in scena la vita. Ma l’arte, che si nutre di fantasia e dosa leggerezza e tragicità, continua a sovrastare la vita di una spanna. Il teatro è metafora dell’esistenza non meno del calcio. È più vero della vita. Forse valeva la pena, in questo spettacolo, di dedicarvi più spazio, anche a detrimento della realtà. E di non limitargli un fugace tempo supplementare con golden goal.