Foto di Maarten Vanden Abeele
Foto di Maarten Vanden Abeele
GIULIA RANDONE | Nel capoluogo piemontese l’autunno coincide con Torinodanza, un festival capace di attrarre i grandi nomi della danza mondiale ma anche interessato ad allungare lo sguardo laddove i linguaggi si ibridano in configurazioni inedite. A questa seconda categoria appartiene lo spettacolo che dal 9 al 13 settembre ha inaugurato la nuova stagione della rassegna. Kiss & Cry è il racconto agrodolce d’una vita di amori e solitudine, ideato per gioco da una coppia di sposi belgi incrociando i reciproci percorsi artistici: la danza per Michèle Anne De Mey, coreografa e direttrice del centro Charleroi Danses, e il cinema per Jaco Van Dormael, regista di film come L’ottavo giorno e Il nuovissimo testamento.

Da un’ispirazione domestica nasce così una grandiosa opera collettiva che coinvolge danzatori, scenografi, cameraman, light designer e operatori di scena in un processo creativo che si realizza “a vista” sul palcoscenico – ingombro di telecamere, computer, scenografie e modellini – per essere filmato e proiettato su un maxischermo. Il palco si allunga nella penombra accogliendo il traffico di uomini impegnati a manipolare una scena in corso o ad approntarne una futura, mentre più in là il mondo creato appena prima si dissolve e le coordinate temporali si annullano in una magica compresenza di presente, passato e futuro. Al contrario lo schermo rimanda un’immagine amplificata del presente in cui gli esseri umani sono scomparsi, sostituiti da una coppia di mani e da minuscoli modellini.

Una figurina di donna su una panchina della stazione osserva i treni scorrerle davanti e torna con il pensiero al suo primo innamoramento, consumatosi in pochi secondi nel contatto tra due mani, e apparentemente perduto per sempre. La memoria di quelle mani, del loro sfiorarsi sensuale, risveglia in lei il ricordo di altre mani, dei cinque amori della sua vita di cui ha smarrito ogni memoria ad eccezione di quella tattile.

Amore è essere stati, almeno per un momento, una coppia di mani. Gli arti di DeMey e Grégory Grosjean danzano una cosmogonia che ha il respiro di quella immaginata da Malick in The Tree of Life, poi si calano nel frastuono di una discoteca e, tra sensualissimi strofinamenti e intrusioni, si allacciano in un romantico passo a due, per ritrovarsi infine in una stanza in miniatura a fare i conti con la stanchezza, l’abbandono e il ripiego. Una corrispondenza d’amorosi sensi si gioca, letteralmente, in punta di dita, nel dialogo di vene in rilievo, avidi polpastrelli e polsi sinuosi. Autentica poesia erotica.

Questo collage onirico in perenne mutamento si dispiega tra l’interno di una casa per bambole, una pista di pattinaggio, la riva di una spiaggia e fantastici mondi paralleli, ma è indebolito da una drammaturgia (Thomas Gunzig e Van Dormael) non sempre all’altezza della visionaria creazione in progress. Tanto più forti sono le scene saturate dalla musica – da un’aria di Handel o da una struggente Nothing compares interpretata da Jimmy Scott – tanto più esile si rivela la struttura del racconto, viziata da alcuni manierismi in stile Amélie e zavorrata da goffe metafore verbali.

Pur con questo limite, l’articolata composizione scenica di Kiss & Cry persuade lo spettatore a partecipare creativamente all’azione, a scegliere ogni volta il luogo in cui concentrare la propria attenzione. Mentre si moltiplicano le possibilità di vedere, specularmente si moltiplica il non visto e lo spettatore si trova rimbalzato tra la curiosità di spiare l’équipe che costruisce l’artificio e il desiderio di immergersi nella finzione. Di fronte alla maestria tecnologico-artigianale che si offre al nostro sguardo, paradossalmente ci scopriamo incantati da uno spazio piccolissimo e ordinario come il vagone di un treno, emozionati all’idea di poter realizzare un sogno infantile: far coincidere il nostro occhio con quello di un omino di plastica, che guarda un mondo di plastica da un finestrino di plastica.

Una magia che rapisce più di ogni sovrastruttura linguistica.