GIULIA RANDONE | Da dieci anni nel nostro calendario c’è una ricorrenza in più: la Giornata della Memoria. Una memoria che dobbiamo fare nostra, perché non nasce da esperienza, ma è stata ereditata. Una memoria che dobbiamo proteggere sia dal relativismo che dalla strumentalizzazione: minacce che si fanno ancora più acute quando a essere ricordato è lo sterminio del popolo ebraico. Lo spettacolo Stones (Avanim), della compagnia israeliana Orto-Da, nasce proprio dal desiderio dei registi Yinon Tzafrir e Daniel Zafrani di guardare alla Shoah da una prospettiva personale, sfidando i tabù e la sacralità che avvolge la sua narrazione e la sua manipolazione a scopi politici.
Lo spettacolo, in scena dal 19 al 24 gennaio al Teatro Gobetti di Torino, nel cartellone del Teatro Stabile, inizia al buio sulle note del famoso tema di Così parlò Zarathustra di Strauss, su cui si staglia una voce enfatica. Lo spettatore viene a conoscenza della storia di alcuni blocchi di granito che Hitler, certo dell’imminente vittoria, aveva fatto trasportare dalla Svezia alla Polonia in previsione della costruzione di un monumento che celebrasse il trionfo del Terzo Reich. Le pietre, però, avranno tutt’altra destinazione. Nel 1948, lo scultore ebreo polacco Nathan Rapoport le modellerà per dare forma al Monumento agli Eroi del Ghetto di Varsavia, un imponente bassorilievo eretto in mezzo alle rovine della capitale e oggi meta di pellegrinaggio e commemorazioni. Quando due potenti fari illuminano la scena, appare davanti a noi proprio questo gruppo scultoreo, reso con sorprendente verosimiglianza dai sei attori-mimi della compagnia. Ricoperti di pittura color bronzo da capo a piedi, gli attori incarnano i protagonisti del monumento: giovani uomini armati, una donna e un bambino, esseri umani dai vestiti laceri e impressionanti occhi incavati.
L’avvio della colonna sonora della seconda guerra mondiale – grida in tedesco, latrati di cani, mitragliatrici e sferragliare di treni – infonde vita alle statue, che si trovano catapultate nell’orrore del ghetto e dei campi, preda della fame e delle sevizie dei nazisti. Ma qui interviene la novità degli Orto-Da, capaci di trasformare i momenti più drammatici in qualcosa di diverso. La violenza e l’umiliazione non vengono annullate, ma alla comunità che ne è stata vittima viene in qualche modo offerta la possibilità di reagire. E, con un gesto comunitario, questo affiatato ensemble controbatte alla morte con il gioco. Per un uomo che muore sul filo spinato, altri trasformano quello stesso filo in un pentagramma. Per coloro che sono stati costretti a indossare la stella di David, altri fanno di quei simboli infamanti una costellazione burlesca. E digitando i numeri con cui in tanti sono stati marchiati nel Vecchio Mondo, si avvia una banale conversazione telefonica nella “nuova” terra promessa.
Sempre senza proferire parola, i protagonisti si imbarcano infatti su una nave che, tra i marosi del secolo breve, li guiderà alla costruzione dello Stato di Israele e alla sua difesa armata. L’apparente fine dell’odissea è salutata dalle sonorità di Always look on the bright side of life alternate a rapidi colpi di mitragliatrice, mentre la retorica del sionismo socialista è sferzata dall’arrangiamento di We will rock you. La minaccia antisemita non è estinta, ma temporaneamente fatta detonare dalle risate che suscita la parodia di un Hitler fantoccio impegnato in meditazioni New Age.
La pantomima grottesca di Stones, con il suo accostamento di alto e basso, di musiche pop e richiami ambivalenti alla cultura ebraica, è coinvolgente perché richiama la vitalità della cultura ebraica popolare, che nella prima metà del XX secolo ha creato capolavori letterari e teatrali in lingua yiddish e ha contribuito allo sviluppo del cinema hollywoodiano. Oggi, purtroppo, dei primi resta scarsa memoria, e perfino un paladino del mondo yiddish come Moni Ovadia sembra avere perso la propria vocazione, cadendo nella riproposizione di barzellette che, davvero, non rendono giustizia alla ricchezza tragicomica del mondo ebraico che fu. Stones, invece, in qualche modo ce la fa intravedere.
E anche per questo siamo disposti a scusargli i difetti che uno spettacolo rodato, con alle spalle centinaia di repliche in tutto il mondo, avrebbe potuto correggere. Anzitutto l’eccessiva lunghezza. Sapendo che lo spettacolo esiste anche in versioni da 20’ e da 40’, spesso si ha l’impressione che alcune scene siano state forzosamente allungate. Scene che, ed è questo un altro difetto, trascinano con sé un ingombrante corredo sentimentale. Di certo molti dei quadri drammatici che avevano per cornice la musica de La vita è bella nascono come bersaglio polemico su cui innestare i contrappunti grotteschi, ma il loro sentimentalismo è davvero respingente e andrebbe contenuto.