RENZO FRANCABANDERA  | Il dattiloscritto è senza data, ma con l’aiuto della corrispondenza editoriale si è abbastanza certi di poter datare la redazione del testo nella sua ultima versione a poco prima di Natale 1965. Fu inviato all’editore all’inizio del mese di gennaio (lo sappiamo da una lettera di Peter Handke all’editore stesso). E’ diventato uno dei testi fondanti dell’inizio della cultura Pop in Europa e grazie all’interesse che negli ultimi anni l’opera teatrale di Handke ha riscosso in tutta Europa e anche in Italia con uno specifico progetto di un paio di anni fa che ancora dipana i suoi esiti, è tornato in scena di diversi allestimenti.
Il prossimo sarà nella versione monologo, interpretata da Stefanie Reinsperger per la regia di Dušan David Pařízek al Volkstheater di Vienna il 1imo Aprile di quest’anno. Eppure guardando la versione di Lea Barletti e Werner Waas, con quest’ultimo a tradurre e a fare una sorta di operazione di regia dall’interno, quasi non si arriva a comprendere come il tutto sia riconducibile a monologo, per quanto è potente l’elemento duale, sofisticato, nella versione di cui parliamo, dal doppio utilizzo delle lingue italiana e tedesca, ciascuna affidata ad uno degli interpreti, e ciascuna sovratitolata nell’altro idioma per una specularità idiomatica.

barletti-waas-autodiffamazione-1.jpgI due si presentano al pubblico in tenuta adamitica, eccezion fatta per pochi oggetti, attributi di genere: scarpe nere con il tacco e il cinturino alla caviglia per lei, l’orologio e il cappello per lui. Fisico maturo per i due interpreti, ma capace di serbare un fascino che scenicamente arriva molto.

Il testo di Handke incarna una potenza postdrammatica che si annida nella sua struttura di frasi di tono apodittico e pop, declamatorio e antinarrativo. Sembrano slogan attraverso i quali un Adamo ed Eva della contemporaneità raccontano la loro vita dalla nascita alla maturità, momento in cui, quasi in corrispondenza di una sorta di peccato originale, pretenderanno di coprire i loro corpi. Mangia una mela, Adamo, mentre Eva continua a raccontare, quasi a conferssarsi, di una vita la cui cifra è essere esperienziale e sociale, fatta di prese di posizione, di affermazione del sè, dei propri errori, del superamento anche dei divieti, di ciò che è apparentemente proibito.

La versione finale di Autodiffamazione di Peter Handke è un testo di 17 pagine, corretto da Handke con diversi mezzi di scrittura. Alcune delle correzioni sono state aggiunte da lui o dai suoi editor, e il maggior numero di ricorrenze si ha proprio in corrispondenza dell’aggettivo “proibito/verboten”, sostituito contro forme più specifiche come: “… sono passato attraverso passaggi, attraverso i quali era vietato passare… ho lasciato cose che. . era proibito di lasciare”.

www.jpgIl rapporto fra soggettività e assolutezza, fra affermazione di sè attraverso quanto fatto e pensato e costituzione dell’identità è probabilmente la questione semiotica e concettuale più interessante di questo testo che si collega, nella sua potenza filosofica ad alcune questioni poste da Michel Foucault che si possono approfondire con la lettura di Sull’origine dell’ermeneutica del sé, pubblicato da Cronopio nel 2012 e che racchiude due conferenze tenute dal filosofo francese il 17 e 24 novembre 1980 al Dartmouth College negli Stati Uniti, con il titolo rispettivamente di “Subjectivity and Truth” e “Christianity and Confession”. Sono temi, la soggettività, la verità e la confessione che a mio personale avviso rappresentano la struttura portante di questo testo unitamente alla lettura profondamente e laicamente biblica, seppur forse involontaria, eccezion fatta per questo riferimento ai genitori dell’umanità.

“Io non sono quello che sono stato. Non sono stato come avrei dovuto essere. Non sono diventato quel che sarei dovuto diventare. Non ho mantenuto quel che avrei dovuto mantenere.”

Nella totale assenza di azioni narrative, con i due attori ad alternarsi in una declamazione l’esporsi degli attori come rappresentanti dell’umanità radunata per l’occasione, il loro lasciarsi guardare nel rapporto con il testo di Handke, che risulta in tal modo sorprendentemente e inquietantemente familiare a tutti.

La declinazione del tema del governo in termini di “governo di sé” pone l’accento sul lato soggettivo della relazione di potere, nell’ambito del quale il controllo si realizza attraverso l’imperativo di elaborare una propria condotta individuale. Proprio nel corso del 1980 Foucault mostra come questo meccanismo di direzione dei soggetti si effettui attraverso la produzione di un certo tipo di sapere sulla soggettività, incentrandosi sulla questione della definizione del “sé”, definizione che si configura nello specifico come determinazione della “verità di sé”. In altri termini, il tema del modello “governamentale” del potere pone in primo piano l’analisi delle tecniche storiche attraverso le quali i soggetti del potere sono stati messi in condizione di (e obbligati a) “manifestare la verità di sé”. Il fulcro della ricerca di Foucault diventa dunque la questione della produzione della “vérità di sé”, ossia di un discorso sul soggetto che si basa sul rapporto di quest’ultimo con una supposta verità di sé stesso, la manifestazione della quale rende l’individuo insieme soggetto e oggetto.
In questo senso, sono due le tecniche di produzione di un discorso sulla verità di sé individuate da Foucault: la confessione e l’esame di sé, pratiche che, secondo l’autore, nella loro implicazione necessaria di un sapere, hanno dato corpo alla concezione moderna del soggetto, ascrivibile sotto l’etichetta di “ermeneutica del sé”. Una genealogia di questa concezione, allora, si dovrà occupare di determinare il suo punto di emergenza storica, a partire dall’analisi delle trasformazioni che le due tecniche della confessione e dell’esame di sé hanno subito nel corso del tempo.
L’ipotesi di Foucault consiste nell’affermazione di un radicamento “cristiano” dell’ermeneutica del sé, cioè di una continuità delle tecniche cristiane di produzione della “verità del sé” con le tecniche moderne del “governo di sé”; continuità che si può dire “strategica” e che, secondo un modulo archeologico che caratterizza l’opera di Foucault fin da Le parole e le cose, non è individuabile se non in virtù della determinazione della discontinuità fondamentale tra queste tecniche cristiane e la loro funzione nell’Antichità greco-romana. È proprio intorno a questa discontinuità che ruotano le due conferenze al Dartmouth College.
Nel suo primo intervento, infatti, Foucault delinea i caratteri delle tecniche storiche che, nella Grecia classica ed ellenistica, rispondevano al precetto delfico gnothi seauton. Egli mostra così la loro essenziale struttura pedagogica, nel senso della paideia, cioè dell’interiorizzazione di un insieme di regole di condotta ritenute necessarie per il corretto svolgimento della vita pubblica dell’individuo sotto il segno dell’autonomia. In questo quadro, le tecniche greche di esame di sé si riassumono, dunque, in un esercizio retrospettivo di analisi dei propri comportamenti volto a commisurare la distanza tra ciò che è stato fatto e ciò che si sarebbe dovuto fare. Perciò, il “sé” soggetto di questa tecnica non è altro che un “punto di intersezione” tra la serie dei ricordi delle proprie azioni e quella degli atti che devono essere regolati (p.47). Nella sua totale immanenza alla superficie della condotta, allora, il sé antico non è affatto una realtà segreta all’interno dell’individuo, ma “il luogo in cui la verità possa apparire e agire come una forza reale” (p.53). Ciò permette a Foucault di definire “gnomico” questo modello: “nel quale la forza della verità fa tutt’uno con la forma della volontà” (p.54). Il sé gnomico è un modello di “organizzazione del sé come un obiettivo, […] come lo scopo verso cui sono diretti la confessione e l’esame di sé” (p.55).
La determinazione dei caratteri del sé antico permette di rendersi conto della cesura rappresentata dall’avvento delle tecniche cristiane: “in queste ultime, il problema è di scoprire cosa è nascosto nel sé: il sé è come un testo o un libro che dobbiamo decifrare, e non qualcosa che deve essere costruito tramite la sovrapposizione, la sovraimposizione [superimposition], della volontà e della verità” (p.55). Trasposte in ambito cristiano, dunque, le tecniche dell’esame di sé e della confessione si vedono caricate di inedite modalità di esercizio; orientate, essenzialmente, non più all’autonomia dell’individuo, ma all’obbedienza che è propria alla “direzione di coscienza”. Il tratto fondamentale dell’ermeneutica del sé, infatti, non si riduce soltanto all’introduzione di un livello di “profondità” del soggetto in cui si colloca la verità di sé stesso, ma anche nell’iscrizione di queste tecniche all’interno di un meccanismo di potere di tipo disciplinare, per cui il soggetto è obbligato a manifestare la verità di sé stesso. Si comprende così la dimensione politica dell’analisi di Foucault del mondo cristiano e delle tecniche di “soggettivazione” che in esso si sviluppano (implicazioni politiche su cui si sofferma la postfazione di Arnold Davidson al volume). Ciò porta Foucault a privilegiare, del cristianesimo e dei suoi testi, il versante della riflessione sulla verità condotta nell’ambito della dottrina dell’anima e della direzione di coscienza rispetto a quella che si sviluppa intorno alla definizione dei dogmi della fede. In un’originale analisi, infatti, Foucault afferma –contro ogni aspettativa – che la specificità dell’ermeneutica del sé non è riconducibile al modello dell’ermeneutica biblica, come ermeneutica del libro, poiché questo tipo di ermeneutica del testo è già rintracciabile nella cultura della Grecia antica, e non sembra subire variazioni significative con il passaggio all’epoca cristiana: “il libro greco per eccellenza, Omero (o meglio, l’Iliade e l’Odissea), era già oggetto d’interpretazione per i Greci, anche prima del cristianesimo. Ma il sé greco non era oggetto di interpretazione” (p.67).
L’origine di un’ermeneutica del sé è, dunque, propriamente il tema della seconda conferenza di Foucault, “Cristianesimo e confessione”, in cui l’emergenza dell’obbligo della manifestazione della verità di sé è determinata sulla base dell’analisi di due istituzioni particolari del cristianesimo: i riti penitenziali e la vita monastica. Le due istituzioni, fondate entrambe sull’esercizio della confessione, descrivono altrettanti poli di quella manifestazione della verità di sé che Foucault individua tra i precetti del cristianesimo. Se, infatti, in entrambe è possibile scorgere quel movimento di “discesa in profondità” del sé che caratterizza la novità dell’ermeneutica cristiana, tuttavia nel rito penitenziale del cristianesimo antico, che prende il nome di exomologesis, la manifestazione di questa verità del sé si svolge attraverso una procedura di “drammatizzazione” pubblica della propria condizione di peccatore (publicatio sui), come una sorta di manifestazione dell’essere stesso del peccatore che è, al contempo, espressione di una volontà di autodistruzione. Al contrario, la confessione assume nell’esercizio monastico tutt’altro valore, svolgendosi attraverso un’attività permanente di analisi dei propri pensieri e di “verbalizzazione” di questi, di cui Foucault recupera la definizione greca di exagoreusis. Poiché tale verbalizzazione si realizza necessariamente di fronte a una guida spirituale, è evidente che l’exagoreusis instaura, per mezzo della confessione, una relazione di assoluta obbedienza e sottomissione della propria volontà a quella del direttore di coscienza. È in questa seconda forma che si può dunque apprezzare la significativa discontinuità che il cristianesimo introduce rispetto alla funzione greca della confessione e dell’esame di sé: pur riprendendo la forma dell’esame di sé stoico, l’exagoreusis traspone questo procedimento in un contesto di “rivelazione” del sé, volto non più a realizzare l’autonomia dell’individuo, ma la sua sottomissione. Del resto, exomologesis e exagoreusis sarebbero per Foucault all’origine di altrettante “tentazioni” o tendenze del cristianesimo: l’una “ontologica”, incentrata sull’idea della manifestazione dell’essere; l’altra “epistemologica”, fondata invece sul procedimento analitico di inchiesta proprio all’exagoeusis (p. 90).
In questo senso, le due pratiche dell’exomologesis e dell’exagoreusis sono simmetriche, l’una operando sul corpo l’altra sulla mente, in quanto in entrambe la manifestazione della verità (nascosta) del sé è volta all’annichilimento di quest’ultimo nella sua autonomia, ciò che Foucault chiama “sacrificio di sé”: “la rivelazione della verità di sé, in queste esperienze tipiche del cristianesimo dei primi secoli, non può essere dissociata dall’obbligo di rinunciare a sé. Dobbiamo sacrificare il sé per scoprire la verità di noi stessi, e specularmente dobbiamo scoprire la verità di noi stessi per sacrificare noi stessi” (p.88). In questo doppio movimento si riassume l’ermeneutica cristiana del sé, che produce come suo correlativo un sé che non è più l’identità della volontà e della verità come quello greco, ma che è oggetto di interpretazione, cioè un “sé gnoseologico”.
È però nelle ultime battute di questa seconda conferenza che l’obiettivo della genealogia foucaultiana si rende manifesto: la “tecnologia cristiana del sé”, infatti, è posta all’origine della tecnologia moderna di governo, nonché dell’intera “cultura occidentale”. Ma questa origine è problematica, poiché la fondazione cristiana dell’ermeneutica del sé, stabilendo uno stretto legame con il sacrificio di sé, opera alla fine soltanto una “fondazione negativa”. Ed è quindi proprio il “problema” di trovare un fondamento positivo all’ermeneutica del sé che costituirà, per Foucault, uno dei motori di sviluppo della cultura occidentale: “Possiamo dire che uno dei problemi principali della cultura occidentale è stato: come possiamo salvare l’ermeneutica del sé, sbarazzandoci però del necessario sacrificio di sé che a essa era associato si dalle origini del cristianesimo?” (p.91). Sarebbe quindi questo movimento a rendere ragione dell’avvento, in Occidente, di quella che Foucault chiama “filosofia del soggetto”, cioè di quella tendenza della filosofia occidentale moderna a “costruire il fondamento della soggettività come la radice di un sé positivo”.
Le due conferenze al Dartmouth College hanno così il pregio di rendere evidente come la vera posta in gioco dello studio delle forme della soggettività greco-romana e cristiana sia per Foucault quello di operare una “genealogia del soggetto moderno”, formula con la quale si può in effetti riassumere tutto il suo percorso filosofico. È, infatti, in quest’ottica che è possibile comprendere il respiro complessivo che queste ricerche di Foucault sempre mantengono, nonché il loro essenziale carattere critico, come opposizione a quella tendenza a “derivare la fondazione di tutto il sapere, e il principio di ogni significato, dal soggetto significante” (p.33) che è per lui la cifra della filosofia occidentale moderna. Ma non solo, ciò che costituisce la singolarità e l’interesse delle conferenze del 1980 è che esse rendono esplicito un legame di implicazione raramente esposto come tale nelle opere principali di Foucault (e raro anche in quelle dei suoi commentatori). Il legame, cioè, fra la critica del privilegio del soggetto nella filosofia occidentale e quella dell’”antropologismo”, ovvero della fondazione del sapere moderno sul concetto insidioso di “uomo” (tendenza che Foucault criticava nell’Introduzione all’antropologia di Kant, del 1961 e successivamente ne Le parole e le cose, 1966): al Dartmouth College Foucault espone chiaramente queste due processi come elementi speculari di una “tecnologia dell’identità e verso una teoria dell’uomo come radice dell’ermeneutica del sé” (p. 91).
L’apporto essenziale della pubblicazione di queste due conferenze di Foucault, allora, consiste proprio nel fornire un ulteriore elemento per l’elaborazione di una prospettiva complessiva sull’opera del filosofo, che sia in grado di mostrare, da un lato, l’intima coerenza delle sue ricerche, tutte animate dalla necessità di denunciare il soggettivismo e l’antropologismo del pensiero filosofico occidentale; ma di esplicitare, dall’altro lato, il carattere di alternativa (quindi il carattere essenzialmente politico) rispetto a questo modello filosofico del XX secolo, che la filosofia foucaultiana intende costituire. È, infatti, con la prospettiva di questa alternativa che si chiude il ciclo di interventi di Foucault al Dartmouth: “è forse giunto il momento, per noi, di porre un’altra domanda: […] abbiamo davvero ancora bisogno di questa ermeneutica del sé? Forse il problema del sé non è scoprire cosa esso sia nella sua positività […]. Forse il nostro problema, oggi, è scoprire che il sé non è nient’altro che il correlato storico delle tecnologie che abbiamo costruito nella nostra storia. Forse il problema oggi è cambiare queste tecnologie […]. In questo caso, uno dei principali problemi politici dei nostri giorni sarebbe, alla lettera, la politica di noi stessi” (p.92).

Quello che si manifesta attraverso il gesto dell’autodiffamazione non è tanto un “noi”, quanto un “io-tu”, un “io-tutti”: cosa importa infatti l’aver o meno compiuto “personalmente” una determinata azione, l’aver pronunciato “personalmente” una determinata frase quando c’è comunque qualcuno che lo ha fatto -mio padre? mio fratello? un amico? un conoscente? un conoscente di un conoscente?- Se non ero io, potevo però esserlo: esiste un testo di cui è fatto il mondo, alla cui responsabilità non si sfugge. Attraverso questo “semplice” gioco con un testo si manifesta con immediatezza tutto ciò che caratterizza il presente: l’isolamento, la continua violenza perpetrata sul proprio spazio interiore, il desiderio d’intimità, l’essere impacciati nell’uso della lingua, la difficoltà di un pensiero non già pensato, lo scandalo di un sentimento collettivo, il disorientamento politico, il miracolo dell’empatia che sopravive nonostante tutto.
Selbstbezichtigung/Autodiffamazione

La scelta del bilinguismo, con l “habitus” linguistico diverso dei due attori, fatti di suoni, ritmi, tonalità e musicalità differenti, rende inoltre particolarmente visibile l’estraneità, la lingua come abito/abitudine, che ci viene fatta indossare quasi “per forza”, una lingua frutto dell’educazione, una lingua che non basta mai e che cerca, attraverso la descrizione minuziosa, attraverso parafrasi, o appunto attraverso una traduzione, di tirare fuori dal guscio l’essenza non dicibile.
Lo spettacolo mostra che cosa è la lingua, cosa può essere, producendo contemporaneamente un potenziale di pensiero non integrabile e non camuffante, ma essenziale e fecondo: qualcosa di cui il nostro presente ha bisogno.

SELBSTBEZICHTIGUNG / AUTODIFFAMAZIONE
Übersetzung / traduzione Werner Waas
von / di Peter Handke
mit / con Lea Barletti, Werner Waas
musik / musica Harald Wissler

Foucault, Michel,
Napoli, Cronopio, 2012, pp. 114, euro 12,50, ISBN 978-8889446751.