Riccardo Goretti, Simona Senzacqua, Alice Redini

MATTEO BRIGHENTI | Chi muore parla e chi vive dimentica. Nel primo atto Simona è un fiume incontenibile, vuole restare attaccata alla casa e alle cose, ha in mano un portalampada, lei che non fa più luce, né propria, né riflessa. Nel terzo atto Riccardo e Alice, il marito e la figlia, si aggirano smarriti tra le sagome dipinte di un cimitero, tombe instabili, appese a un filo: il tempo è mobile e loro non sanno qual è la lapide giusta. Ne pregano una qualsiasi: l’importante è il gesto o, come nei regali, il pensiero.
Il ricordo è quella contraddizione in termini per cui un nome, una voce, una figura, che crediamo e vogliamo immutabili nella memoria, con il semplice e impietoso scorrere dei giorni si contaminano con il vuoto che hanno lasciato, fino a esserne abbagliati e inghiottiti. È la legge naturale della sopravvivenza.
Qui sta la più intrigante conquista de La vita ferma, il nuovo lavoro scritto e diretto da Lucia Calamaro (sue anche le scene e i costumi): sono soprattutto i morti ad avere bisogno del ricordo dei vivi per restare in vita. La “corrispondenza d’amorosi sensi” descritta da Foscolo nei Sepolcri sarebbe sbilanciata a favore dell’aldilà. Comunque, anche questa è una lotta impari e persa in partenza, perché la vita, qualunque essa sia, da qualunque parte si trovi, va sempre incontro alla sua fine.
È soltanto una questione di tempo: quello scenico, però, è francamente esorbitante. Ne La vita ferma si posano – recita il sottotitolo – Sguardi sul dolore del ricordo per un “dramma di pensiero in tre atti” che attraversa una famiglia prima, durante e dopo l’incidente del male e la perdita inspiegabile. Lo smarrimento finale di Riccardo e Alice si riflette nel nostro, lo spettacolo si è già completamente rivelato due atti e quasi due ore fa, a questo punto non aggiunge altro che concettualizzazioni e perversioni ‘freudiane’, come la figlia che si immagina nella tomba della madre, presto capovolta nella sua cameretta di bambina.
Sulla scena Riccardo Goretti, Alice Redini, Simona Senzacqua, portano il loro nome di battesimo e non cambiano sembianze o fattezze al procedere degli eventi: gli eventi si prendono gioco di noi, anche se restiamo noi stessi, fedeli ai nostri valori e intenzioni. Il rigore, la leggerezza sognante, l’adesione completa e convinta degli attori al testo e al contesto sono le fondamenta di un’atmosfera quotidiana e irreale, perché più vera del vero, una soglia sottratta al rumore di fondo della realtà, che diviene il punto d’incontro tra il noto e l’ignoto, il naturale e il sovrannaturale.
Il mistero e la paura sono bisturi per una disperata operazione di salvezza già imbracciati nel 2006 con Tumore. Ora la “lingua calamaresca”, come l’ha definita Silvia Ferrari su PAC, accoglie, inquadra e sviluppa il buco insanabile nella trama del reale lasciato da chi ci lascia.
Il ‘sarto’ che cerca un impossibile rammendo è senza alcun dubbio Goretti, la cui fragilità piena di dolcezza e ironia dimostra cosa può fare un comico di razza quando fa vibrare con cognizione di causa le sue corde drammatiche.
Così, nel primo atto Riccardo sta traslocando, la casa è diventata troppo grande per lui solo, ma tra le cose da mettere via negli scatoloni ai lati della scena, altrimenti vuota, non riesce a riporre proprio Simona.
Iniziano insieme, l’uno accanto all’altra, fin dall’ingresso del pubblico nella sala del Teatro Cantiere Florida di Firenze. Riccardo ha una camicia azzurro cielo e pantaloni marrone terra, è il tramite, appunto, tra l’alto di chi va e il basso di chi rimane, mentre Simona ha un vestito a fiori, forse la sua stessa tomba, quella lapide che padre e figlia non riusciranno a trovare.
La solitudine del morto che ha paura di essere dimenticato e pretende un ricordo di sé tanto integro da stare in un unico scatolone si confronta e dialoga con la necessità di elaborare il lutto e modellare la memoria a proprio modo (e vantaggio). È il loro ultimo incontro, ma anche il primo, perché su un letto di biglie rovesciate da un cassetto si distendono le stelle di quando erano giovani, il presente e il passato si cuciono per un istante.
Con gli scatoloni alzano un muro, e i romanzi, i saggi, le poesie, sono pratiche di convivenza su cui ancora si dividono, quasi fosse un divorzio come un altro e i beni tutti in comune.
Riccardo non ha paura di vedere un fantasma, perché Simona non ha consistenza da sé, è l’immaginazione di lui, il suo dolore che parla. Va sul terrazzo, cioè davanti al muro, un’altra soglia, perché “non è né dentro, né fuori”, e confessa che non c’è nessun altro eccetto lui e la sua perdita. Si aggrappa con disarmante franchezza al cielo che tutto sorregge, quel cielo che non è un fondale, come direbbero Deflorian/Tagliarini.
Il palco è vuoto anche nel secondo atto, ma la narrazione è tornata indietro: la casa è ancora abitata da tutti e tre, a dimostrarlo ci sono una poltrona da salotto e un comodino con dei libri sopra.
Sapevamo che Riccardo era uno storico e nostalgico fissato con il filosofo francese Paul Ricœur, adesso vediamo in Simona una quasi danzatrice, che si esibisce in ampie evoluzioni simil ginnastica artistica. Alice, da subito troppo sensibile, spiega giù dal palcoscenico quando ha saputo che la mamma era morta. Chiede, domanda, ma le risposte, semmai, arriveranno da grande, quando non serviranno più. Intanto, ha riempito di mostri il suo quaderno/diario dei sospiri innocenti.
La semplicità, la gentilezza di Riccardo danzano con la sicurezza, la grinta di Simona, nonostante il testo prenda ad avvitarsi sull’ossessione di ricondurre ogni stato d’animo a logiche e concetti da enciclopedia universale. Inoltre, se prima il sorriso nasceva da cosa i personaggi dicevano, una volta messi di fronte a situazioni imprevedibili e di per sé bizzarre, ora si sorride per come lo dicono, o meglio perché sono (bravi) loro a dirlo.

Foto di Alessandro Carpentieri

Certo è che gli spazi per l’ironia si assottigliano minuto dopo minuto. Si scoprono le sedie di una sala d’aspetto ed è Riccardo a parlare con il medico: nel suo monologo Goretti riceve una notizia che non ammette spreco di fiato, il mondo intero gli crolla negli occhi e solamente in silenzio può sostenere lo sguardo della figlia. Ha la resistenza di uno scoglio, le onde lo sorpassano e lui ritira fuori la testa, ma la marea ormai è alta.
Allora, rivolge una composta e decisa preghiera laica alla Madonna, le chiede di restare fermi, implora un ritardo, l’attimo per sempre, o almeno il domani, di cui il tempo si nutre. Ma non c’è niente che (si) possa fare. E poi Simona non vuole nemmeno prendere le medicine (le ha rovesciate a terra, come le biglie nel primo atto, scatenando il flashback della malattia), sta già provando il vestito a fiori da portare nella tomba.
Padre e figlia si rincontrano 5 anni dopo il funerale, che diventano 12 al matrimonio di Alice. Il cerchio de La vita ferma si chiude sulla figlia cresciuta e a sua volta moglie e madre, il dolore è evaporato dai resti ricomposti della famiglia.
Alla fine, il buio che accomuna i vivi e i morti riunisce il palco e la platea. La scelta definitiva se sia meglio ricordare e restare schiacciati dalla sofferenza oppure dimenticare e andare avanti è lasciata al pubblico: l’oscurità del dubbio è la vita che ci aspetta dopo la nostra, l’unica che non si fermerà mai.
Che la terra possa essere più lieve di quella che abbiamo percorso fino a qui.

LA VITA FERMA
Sguardi sul dolore del ricordo
drammaturgia e regia Lucia Calamaro
con Riccardo Goretti, Alice Redini, Simona Senzacqua
assistenza alla regia Camilla Brison, Giorgina Pilozzi
scene e costumi Lucia Calamaro
contributi pitturali Marina Haas
accompagnamento e distribuzione internazionale Francesca Corona
una produzione Sardegna Teatro, Teatro Stabile dell’Umbria
in collaborazione con Teatro di Roma, Odéon – Théâtre de l’Europe, La Chartreuse – Centre national des écritures du spectacle
e il sostegno di Angelo Mai, PAV
Visto giovedì 23 marzo 2017, Teatro Cantiere Florida, Firenze, all’interno di ‘Materia Prima’, la rassegna ideata da Murmuris Teatro.