RENZO FRANCABANDERA e ROBERTA ORLANDO | RF: Panico. Un aggettivo e non un sostantivo. Che Alejandro Jodorowsky ha contribuito in modo sostanziale a ripensare nel recente passato.
Dal riguardare in ambito classico tutto quanto riguardava il dio Pan, e spesso vicino al concetto di timore, questa parola ritorna poi nel secolo scorso nella rielaborazione dannunziana per definire un sentimento di identificazione fra uomo e natura, con il primo che si identifica e si fonde nelle forze della seconda. In questa direzione ed in realtà in contrapposizione al movimento surrealista, l’artista e pensatore cileno, indagatore del rapporto fra ancestralità umana e forze magiche della natura, Jodorowsky creò nel 1962 con Fernando Arrabal e Roland Topor un Movimento Panico, con caratteristiche simili a quanto l’arte andava indagando in quel periodo, attraverso eventi performativo-teatrali pensati per essere scioccanti, non di rado violenti, miranti nietschianamente a liberare le energie distruttive in cerca della catarsi capace di riportare pace e bellezza.

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Erano gli stessi anni in cui Hermann Nitsch creava a Vienna i primi Schüttbilder (opere e azioni performative create gettando colore e sangue su tela o corpi umani), che lo porteranno a tre arresti e diversi processi. Suggestionato dall’intreccio fra destino, forze magiche e natura, l’artista cileno ha dato molto al teatro, usandolo come elemento per la fondazione del suo pensiero psicomagico, fatto di rimandi e simboli che lui stesso portò in scena.

RO: Opera Panica è una nuova produzione del Teatro Franco Parenti in scena dal 10 al 29 ottobre, per la regia di Fabio Cherstich. La complessità di questo testo dell’artista cileno sta proprio nel riempire di significato una composizione di 26 mini-pièce (qui ne vengono proposte una ventina), con un tempo e uno spazio scenico ridotti, mantenendo la profondità di un’esplorazione nella mente umana, ma allo stesso tempo la leggerezza che caratterizza la forma teatrale del cabaret (seppur definito, in questo caso, tragico).

unnamed-35-600x315.jpgRF: In realtà è una creazione che ha a che fare in certi momenti anche con il sentimento dell’happening, dove le forme teatrali che menzioni fanno parte di un modo di intendere il teatro da parte del drammaturgo molto più vicino al pensiero di Artaud, al teatro della crudeltà.

RO: Sono d’accordo. I quadri di cui si compone la creazione attraverso situazioni spesso spiazzanti, dirompenti, per un verso strappano una risata, e per altro spalancano gli occhi su una realtà del tutto riconoscibile. In questo sta la simbiosi suggerita dal titolo: da una parte troviamo l’opera panica, che attinge appunto come dicevi alla “Psicomagia” di Jodorowsky (una teoria terapeutica di sua invenzione che ha dato il titolo a una delle sue maggiori opere); dall’altra la comicità amara del cabaret, come forma di rassegnata complicità verso i mali della psiche umana.

RF: Sono micro narrazioni intervallate da inserti di cabaret. Parlerei non di surreale, ma al più di un assurdo, che solo in parte è  ingrediente centrale, perché ancor più profonda nel testo, e potremmo dire anche nell’allestimento, è l’indagine filosofica sull’indole umana: fra straniazioni e illogicità, le aporie della prima filosofia greca diventano elemento per indagare il presente, con rimandi alla nostra identità soggettiva ma anche sociale. Il rimando al presente avviene anche attraverso i costumi, con costumi che alternano dettagli del cabaret clownesco a riferimenti all’oggi.

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RO: Per riuscire in questo intento espressivo, il regista si avvale di quattro attori abilissimi nel fondere le ambivalenze di drammaticità e comicità. Valentina Picello, Loris Fabiani, Matthieu Pastore e Francesco Sferrazza Papa si alternano sul palco o più spesso vi si incontrano, in una composizione di quadri scenici dallo sfondo bianco, simile a un fumetto che prende vita. La parola viaggia in parallelo col movimento: oltre a un’evidente intimità col testo c’è una gestualità pantomimica fluida e precisa tra gli interpreti, un vero scambio di battute corporeo.

RF: Il lavoro sugli attori è una delle evidenze più significative di Opera Panica, tale da trasformare un testo abbastanza scivoloso in un insieme di sequenze sul mal di vivere, di esprimere i propri sentimenti in libertà, in cui non manca soprattutto la capacità di una lettura cinica dell’uomo, la sua nera bestialità che finisce per portare alla mente l’egoismo del vissuto quotidiano. All’esperienza di una notevolissima Valentina Picello, in stato di grazia, si affiancano tre interpreti maschili di robustezza interpretativa, pur nella freschezza anagrafica. La regia attraverso i quattro in scena (+2, in realtà) in questo riesce, definendo un senso e un gusto nitido, preciso.

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RO: Esatto, +2, perché nella miglior tradizione del cabaret le scene sono intervallate dagli interventi musicali dei DUPERDU, un duo composto da Marta Maria Marangoni e Fabio Wolf (autori e interpreti delle canzoni dello spettacolo) che nei tradizionali vestiti del cabaret di inizio Novecento aggiungono colore e  forza ulteriormente straniante alla pièce.

RF: E’ un’operazione di potenza sporca, in cui lo spettatore viene riacciuffato per i capelli proprio mentre prova a scappare dalle sequenze in cui viene messo davanti allo specchio. Non a caso elemento scenico, in questo quadro che correttamente definisci da graphic novel (altra arte in cui Jodorowsky pure si espresse), è un’enorme lente deformante, capace di ingrandire in senso raccapricciante i dettagli del miserabile umano. E questa mi sembra effettivamente l’intenzione di Cherstich e della sua squadra, che per nostro conto, pur in una certa imperfezione panica, è da considerarsi riuscita.

 

OPERA PANICA cabaret tragico
di Alejandro Jodorowsky
traduzione di Antonio Bertoli
con Valentina Picello, Loris Fabiani, Francesco Sferrazza Papa, Matthieu Pastore
e con i DUPERDU Marta Maria Marangoni e Fabio Wolf, autori e interpreti delle canzoni originali dello spettacolo
regia e spazio scenico Fabio Cherstich
scene Gianluca Sbicca