Leonardo Capuano, Paolo Musio

MATTEO BRIGHENTI | Il monologo è l’arte dell’attore per eccellenza. Un ballo da solo tra il buio della vita e le luci della scena. Là dove l’azione è riflessione, abisso, tormento, la parola è insieme salvezza e dannazione, è l’appiglio che fa cadere il personaggio definitivamente dentro se stesso.
Allora, si spalanca una “realtà aumentata”, terribile e liberatoria, che Leonardo Capuano in Zero spaccato e Paolo Musio ne L’arte del teatro “danzano” in modo intimo, confidenziale, dimostrando, una volta di più, che il palcoscenico è la ricerca di un sollievo comune alla paura del vuoto, del nulla e del tempo inevitabile che li unisce.

Un tavolo del commiato è addossato al muro della piccola sala del Lavoratorio di Firenze: un drappo rosso, un cuscino bianco, i fiori in vaso. Capuano, camicia bianca, completo scuro, scarpe nere, si risveglia dal suo sonno profondo di morte per rientrare in “un’intima soggettiva sulla propria esistenza”, come lui stesso definisce lo spettacolo che ha scritto e diretto. Un parlare e procedere a ritroso, a risalire la corrente del prima attraverso sei capitoli, introdotti come i passi di danza della sua fine: l’agonia, la colpa, il delirio, i ricordi, gli incontri, l’addio.
Le luci scolpiscono nello spazio il protagonista del Premio Ubu Macbettu, dal blu del rigor mortis al giallo dell’oltremondano, come le parole ne modellano il viso. È molto compreso nel ruolo, controllato e disinibito, dà (il suo) corpo a immagini vivide di pianti e risate, gioie e amarezze. Si direbbe che veda ciò che dice, pur restando con gli occhi fissi, estraniato, ma non estraneo, quasi non fosse qui, ma in uno spazio lontano – la sua vita passata – da cui arriva un’eco ipnotica che risuona di tante storie e luoghi diversi.
Infatti, la narrazione di Zero spaccato non è lineare, sta a noi ricomporre i pezzi di questo “puzzle esistenziale”, riannodare i fili di una trama che non sappiamo come va a iniziare finché non finisce. Un lavoro che ci invita, parimenti, a lasciarci trasportare, con la convinzione che, per parafrasare Schopenhauer citato in scena, anche se in fondo non possederemo tutte le cose (i legami, i rapporti, le parentele), saranno loro a impossessarsi di noi.

Foto di Manuela Giusto

Giunto al suo ultimo passo, l’addio, Leonardo Capuano si asciuga il sudore che gli cola dalla testa completamente rasata e poi esce di scena. È l’unico momento di pausa che si concede, per il resto il suo è un dis-correre quadrato, granitico. Sa quello che vuole: riappropriarsi degli inizi alla luce di come è andata a finire male.

La fine, invece, non appartiene ancora a Paolo Musio, la sua ne L’arte del teatro è una fine, per così dire, che non finisce. Di conseguenza, le pause per lui si moltiplicano, rivelando quanta fragilità si nasconda sotto alla sua “armatura” di spudoratezza.
Scritto e diretto da Pascal Rambert e tradotto dallo stesso Musio, il testo è l’amareggiato e sentimentale “viale del tramonto” di un attore a spasso con il suo levriero russo. Sul palco del Teatro Fabbrichino di Prato ci sono soltanto una sedia, un cuscino, una ciotola, un pannello bianco. Paolo Musio è in ciabatte, pantaloni della tuta, fruit e cardigan con della carta ai lati del collo, come si usa avere al trucco per non sporcare i vestiti.
Comincia a parlare da fuori scena, sembra rivolgersi a qualcuno, poi entra e si scopre che è il suo cane al guinzaglio. Nessuno, evidentemente, lo ascolta più, il levriero sì, ma comunque non può capirlo: la solitudine è la condanna di chi invecchia, che sia in teatro o ai giardinetti. Inoltre, l’animale rende vivo il riferimento costante agli attori incapaci e a quelli alla mercé del pubblico.
Liberato il levriero, che si accoccola sul cuscino, si siede anche Musio, senza mai appoggiare la schiena: è un fascio di rancore e rimpianti. Ha bisogno di dire tutto e subito, magari così il domani arriva prima e con esso pure una qualche consolazione. Le sue parole sono un continuo richiamo al passato, alle donne giovani, al mito degli anni ’80, aizzato dalla rabbia contro le nuove generazioni, che rifanno il già fatto.

Foto di Luca Del Pia

Altero e malinconico, il volto piegato all’ingiù dalla stanchezza di sopravvivere, l’attore si ripete che il teatro dà vita alla vita, è l’arte della vita stessa. La luce bianca, quasi da ospedale, quasi tutto fosse frutto di un’allucinazione, lascia il palco all’ocra come di un lampione nella nebbia. Paolo Musio prende il cellulare e fa partire Se telefonando di Mina. Balla e pare un pugile al rallentatore. Si ridesta anche il cane a questo “fuoco” di gioventù perduta.
D’altronde, ha passato la vita nel tempo espanso del teatro. Ora tutto ciò che gli resta è quel levriero su cui non può avere né torto né ragione. Ovvero se stesso. Lo afferma da ultimo: gli attori sono cani che hanno assimilato l’abbandono, il teatro serve a respingerlo.
L’arte del teatro, in definitiva, è la celebrazione dell’imparare a restare soli e ad amarsi incondizionatamente, come fanno gli animali. La fine non può essere separata dall’inizio e quindi se ne vanno l’uno al guinzaglio dell’altro. L’uomo e l’attore.

Zero spaccato

di e con Leonardo Capuano

Il Lavoratorio
Firenze
Sabato 3 febbraio 2018

L’arte del teatro

testo e regia Pascal Rambert
traduzione Paolo Musio
con Paolo Musio
direttore tecnico Robert John Resteghini
capo elettricista Sergio Taddei
foto di scena Luca Del Pia
si ringraziano per la collaborazione Elena Trevisan e il suo cane Ladies of the lake’s Galitsine
produzione ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione, Triennale Teatro dell’Arte, Teatro Metastasio di Prato

Teatro Fabbrichino
Prato
Domenica 4 febbraio 2018