RENZO FRANCABANDERA | Il Centro di Produzione Pupi e Fresedde-Teatro di Rifredi a Firenze è uno di quei casi, non rari, anzi, di realtà che lavorano molto, con un grande impatto e radicamento sul territorio, ma di cui si parla poco. Ed è un peccato, perchè ha all’attivo decenni di pratica teatrale e di dialogo con i propri spettatori, un programma fitto di iniziative che molti teatri, anche molto più sostenuti economicamente dai fondi pubblici, si sognano.
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Fra questi spicca la promozione della nuova drammaturgia contemporanea, che ha una apposita sezione della programmazione con testi di autori spesso affermati all’estero ma quasi sconosciuti in Italia, come il francese Remi De Vos (“Alpenstock”), di recente affidato a Ciro Masella, sia adattando alla scena opere letterarie di scrittori di fama internazionale come la turca Elif Shafak (“La bastarda di istanbul” con Serra Yilmaz) e il franco-belga Eric Emmanuel Schmitt (“L’intrusa” con Lucia Poli).
Figlia di questa costola della programmazione è la messa in scena de Il principio di Archimede del drammaturgo catalano Josep Maria Miró, il cui testo ha avuto la traduzione e la successiva regia di Angelo Savelli. Lo spettacolo, interpretato da Giulio Maria Corso, Monica Bauco, Riccardo Naldini, Samuele Picchi è una drammaturgia raffinata la cui struttura interna è abile nello scolpire la definizione dei caratteri che in una logica, diciamo così, strutturalista, elabora la fiaba contemporanea in modo crudele e lasciando quell’irrisolto che è tipico delle strutture narrative contemporanee.

Se infatti gli intrecci della “commedia” fino alle sue declinazioni Novecentesche (pensiamo in Italia a De Filippo, ma persino a Ruccello e ad altri contemporanei, Massini ecc) chiude la struttura dei fatti con un finale, dolce o amaro che sia, la contemporaneità pare non ammettere finale, chiede la sospensione nell’incognita, lascia lo spettatore nei dubbi. Pensiamo a tante opere di giovani drammaturghi italiani, da Aldrovandi e Carnevali fino a Barile. Mirò pare appartenere a questa generazione, una generazione che va oltre il manicheismo del bene e del male. E che piuttosto cerca in quanto sta attorno le cause della deriva della società.
Sul tema stesso della pedofilia (vera o presunta) e sempre di scuola spagnola, alcuni anni fa era andato in scena in Italia Hamelin di Juan Mayorga. Ed è curioso considerare come evolva la vicenda a seconda del sistema mediatico che sta intorno. Lì la vicenda era amplificata da tv e stampa.
In questa drammaturgia la nuvola di clamore, il sistema che processa e si sostituisce alla legge è social: i gruppi Facebook, il sistema dei like, dei mi piace dato a questo o quello.
Il protagonista (un impeccabilmente equivoco e torbido Giulio Maria Corso) è un giovane istruttore di nuoto, che troviamo negli spogliatoi della piscina in cui insegna, in una scena onirico-didascalica composta da oggetti, luci (belle, di Alfredo Piras) e finanche gradinate del pubblico, ideata nel complesso da Federico Biancalani e curata in ogni dettaglio di pensiero.

Monica Bauco ne IL PRINCIPIO DI ARCHIMEDE
Disegno eseguito dal vivo da Renzo Francabandera

Lo troviamo con il suo giovane amico e collega (preciso nel recitato, l’atletico Samuele Picchi): fisici palestrati, tardoadolescenti giocherelloni e scanzonati, che devono resistere ai rimbrotti della direttrice della struttura (l’antagonista del personaggio principale, nell’impianto strutturalista, diciamo così), attenta ad ogni dettaglio e al rispetto delle regole (una Monica Bauco perfetta, degna davvero di creazioni sceniche importanti).
La contravvenzione delle regole però è dietro l’angolo: con una struttura narrativa di flash back e flash forward di grande intelligenza drammaturgica, scopriremo che in realtà questo rimbrotto iniziale arriva dopo che è già esplosa la “bomba”, la notizia che farà deflagrare gli equilibri e che apprenderemo di lì a poco: il protagonista si sarebbe reso protagonista di effusioni e dolcezze nei confronti di uno dei ragazzini del corso.
Subito su Facebook scatta la caccia al possibile mostro, nasce il gruppo dei genitori (per chi ne bazzica, come noto, una delle più temibili invenzioni social) ed ecco piombare in piscina il padre del bambino (Riccardo Naldini, che rende bene il suo essere trascinato e manovrato da forze più grandi di lui), che prima va a parlare con la direttrice e poi, armato di mazza, arriva a farsi giustizia da solo.
Nel frattempo la struttura della fabula avrà subito due tre salti carpiati, che rendono questa drammaturgia serratissima e mozzafiato nella sua normalità: l’eroe diventa antieroe, da figo palestrato a mostro pedofilo, l’amico dell’eroe lo abbandonerà nella difficoltà, la presunta antagonista diventa alleata del protagonista e lo difende dai veri antagonisti, che sono quelli fuori. Il piccolo mondo della piscina si barrica, ma nulla può contro la violenza di chi si fa giustizia da solo, senza aspettare, capire, intendere, approfondire.

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foto di scena Pino Le Pera

Rappresentato in tutto il mondo con successo, tanto nella Latino America ispanica che nel mondo anglosassone/USA e in tutta l’Europa continentale, questa precisa descrizione della spirale che dalla paura porta alla violenza e viceversa, attraverso il cambiamento strutturale della natura dei personaggi di cui si è detto sopra, è capace di rappresentare con serpeggiante profondità l’ambiguità della verità nel mondo delle rappresentazioni dei si dice, dei like, dei post. Da un lato il dramma di un possibile reato, dall’altra quel “venticello” rossiniano, la calunnia, inarrestabile, che già nella celebre aria de Il barbiere di Siviglia arrivava di bocca in bocca (di condivisione in condivisione diremmo ora) alla potenza di “un colpo di cannone”. Si pensi a quei post tutti uguali e falsi che terminano tutti con l’interrogativo in cubitale “Quanto ti fa incazzare”? E si pensa sempre sorridendo: ma chi ci crede? Eppure pare siano logiche di massa capaci di far eleggere questo o quel presidente di una superpotenza…

Lo spettatore è messo di fronte a quell’alimentarsi di indizi la cui somma nel mondo social fa una colpa: il non dichiarare il proprio orientamento sessuale (che fa uguale al “reato di omosessualità” nel tribunale dell’ignoranza), il like al profilo social di una ragazzina, il panico di fronte alla situazione che evolve in modo non chiaro, il costume di un bambino ritrovato e raccolto dall’insegnante nel suo armadietto. Insomma nulla che di per sé rappresenti una prova di colpevolezza, ma la giustizia sommaria degli hatersnon ha bisogno di prove. Parte all’attacco.

La regia di Savelli, forte di una vibrante traduzione in un italiano tagliente senza mai essere volgare, pur nella sua colloquialità, rivolge maniacale attenzione ai dettagli, finanche all’abbinamento dei costumi nel loro colore, e in una dinamica di recitazione surround che, abolendo il principio di frontalità, si rivolge ad entrambe le gradinate, simmetriche, con uguale vigore direzionale. Le gradinate che simbolicamente si fronteggiano e le luci sempre da “mezza sala” che lasciano il pubblico in parte illuminato, favoriscono nella mente dello spettatore quella caccia alle streghe nel vicino di posto. Siamo tutti predatori, maniaci, proiettati nella mente del nostro dirimpettaio, pronto a sospettare, condannare, linciare.

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Forte di queste dinamiche insite nel testo e nella bella regia di Savelli, nel gioco di scena e nelle luci, Il principio di Archimede ha una potenza di coinvolgimento, che si fonda sia sulle notevoli interpretazioni che nella dinamica ambientale a suo modo immersiva, voluta dalla direzione della messa in scena.
Ha caratteristiche sofisticatamente pruriginose, moderne, cattive, un cinismo senza scampo che lascia il pubblico con gli interrogativi su quale dei caratteri in scena più si avvicini alla nostra indole, per scoprire poi, dopo qualche giorno, che c’è un po’ di ciascuno di loro in ognuno di noi.
Questo spettacolo, apparentemente semplice ma di grande effetto, può (e secondo me deve) girare.
Sarebbe un peccato che i grandi teatri italiani non dessero al loro pubblico la possibilità di confrontarcisi.

IL PRINCIPIO DI ARCHIMEDE  

di Josep Maria Miró

traduzione e regia Angelo Savelli

con Giulio Maria Corso, Monica Bauco, Riccardo Naldini, Samuele Picchi
scene Federico Biancalani
luci Alfredo Piras
foto Pino Le Pera 

PRIMA NAZIONALE

Firenze, Teatro di Rifredi