LAURA BEVIONE | La performance art e la musica elettronica si incontrano e dal loro fitto dialogo nasce una sorta di opera contemporanea, in cui i linguaggi – il corpo, la musica, la parola, l’oggetto di scena – s’intersecano armoniosamente, generando visioni “sonore” e suggestioni non convenzionali.

Parliamo di Drama Sound City, un progetto ideato nel 2015 dalla compagnia Stalker Teatro e che tornerà in scena sabato 3 novembre alle Officine Caos di Torino nel cartellone della XXXI edizione del festival Differenti Sensazioni. Ne abbiamo ripercorso la genesi e abbiamo riflettuto sul suo valore insieme a uno degli interpreti, Stefano Bosco, che condivide il palco con Elena Pisu e Dario Prazzoli.

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Com’è nato il progetto Drama Sound City?
Tutto è partito da un primo stimolo giunto dagli Ozmotic  [gruppo torinese di musica elettronica n.d.r.], che avevano già lavorato con la nostra compagnia – Stalker Teatro – in altre produzioni. Loro ci proposero di elaborare insieme uno spettacolo che unisse musica elettronica e performance art e che, dunque, potesse avere un mercato sia nell’ambito della musica che in quello del teatro. Allora non c’era ancora un’idea precisa, ma soltanto la volontà di lavorare su qualcosa che unisse questi due mondi, forti anche del fatto che ci conoscevamo tutti e avevamo stima gli uni degli altri.

Era comunque chiaro che non si sarebbe trattato “semplicemente” di un concerto…Sì, assolutamente, anche perché la produzione era di Stalker Teatro e dunque legata alla nostra appartenenza alla categoria ministeriale di “teatro d’innovazione” (art. 3).

Come si è sviluppato poi il processo di creazione dello spettacolo?
Gabriele Boccacini
iniziò a realizzare il progetto drammaturgico, proponendoci la tematica delle periferie urbane, sulla quale fummo tutti d’accordo. Gabriele, quindi, cominciò anche a creare la regia dello spettacolo, mentre gli Ozmotic si resero disponibili a seguire le nostre prime prove e a comporre vedendo quello che accadeva.

Quali sono, nello specifico, i temi al centro dello spettacolo?
Il contenuto concerne il contemporaneo, l’urbano, le periferie ma la drammaturgia è sostanzialmente aperta, nel senso che lo spettatore è invogliato a produrre senso e significati autonomamente. A differenza del nostro ultimo lavoro, La nebbia della lupa [che ha debuttato nella primavera scorsa n.d.r.], in cui lo spettatore è più accompagnato per mano, in Drama Sound City lo è un po’ meno e può dunque scivolare tra i significati più liberamente. E, in effetti, in questi anni abbiamo collezionato da parte degli spettatori tutta una serie di significati che a noi, di fatto, sfuggivano. Non si tratta, comunque, di un lavoro che non porge la mano ma, anzi, esso offre anche al pubblico più giovane o meno abituato al linguaggio teatrale un fil rouge di contenuti che si può facilmente individuare e seguire. Per citare un riscontro molto recente, voglio ricordare una recensione uscita in occasione della replica che abbiamo fatto poche settimane fa a Napoli, alla Galleria Toledo. In quello scritto hanno parlato, secondo me correttamente, di una «prossemica degli spazi urbani»: uno studio delle periferie, che non sono soltanto quelle delle metropoli bensì anche le periferie del mondo, quelle dello spazio – a un certo punto creiamo un’immagine che suggerisce le stelle e le costellazioni – e quelle del corpo – la pelle, gli organi – così come quelle dello spirito.

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La dimensione metropolitana è, comunque, quella più evidente nello spettacolo
Sì, infatti ci sono dei barboni, dei senzatetto; ci sono i black-blocks, queste figure di incappucciati che ricordano un ambiente urbano-periferico. Con i cartoni realizziamo lo skyline di una città, con dei pezzi di legno – che usiamo in varie forme e soluzioni – costruiamo un palazzo da cui poi usciamo come se fossimo degli abitanti che si affacciano dai balconi. In diversi momenti, a livello visivo, il pubblico può avere la suggestione di trovarsi in mezzo a una metropoli, una sensazione acuita dalla musica, poiché Simone [Bosco] utilizza anche dei suoni ambientali che ha catturato in strada.

E il pubblico si lascia coinvolgere facilmente dall’atmosfera che create in scena. Secondo te, perché Drama Sound City, che avete allestito in contesti e per spettatori tanto diversi, riesce sempre a parlare a chi è seduto in platea?
Il linguaggio visivo e quello musicale sono certamente fra i più efficaci. La musica elettronica integrata con l’utilizzo dei materiali e inserita in una dimensione visiva risulta davvero intellegibile, trasparente. Pur senza cadere nella didascalia, ci sono delle immagini chiare; c’è poi anche un testo.

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Un testo incarnato nella voce narrante di Adriana Rinaldi…
Si tratta di un testo elaborato da Gabriele [Boccacini] a partire da scritti di Burgess. E anche questo testo costituisce un appiglio importante per lo spettatore che vuole entrare dentro il lavoro e superare la “fatica” che le parti di perfomance più astratte e oniriche potrebbero comportare. Per esempio, nel momento in cui il palco è occupato da moltissime lucine che, in effetti, farebbero pensare a tante stelle, lo spettatore che ancora dubita viene confermato nella sua intuizione dal testo, nel quale si parla della Via Lattea…

Avete portato lo spettacolo in giro in Italia; all’estero?
All’estero non ancora – malgrado con un altro nostro spettacolo, Steli, abbiamo girato moltissimo, quest’anno anche in Corea del Sud e, a dicembre, a Hong Kong – ma ci stiamo lavorando. In Italia, invece, abbiamo portato lo spettacolo, sia nel 2017 che nel 2018, in molte regioni – Lombardia, Sicilia, Toscana, Campania – anche se, purtroppo, nel nostro paese non esiste un mercato reale…

DRAMA SOUND CITY

progetto e regia Gabriele Boccacini
musiche originali eseguite dal vivo: Simone Bosco – Ozmotic
disegno luci: Andrea Sancio Sangiorgi
interpreti Elena Pisu, Dario Prazzoli, Stefano Bosco
voce narrante Adriana Rinaldi
produzione Stalker Teatro; con il sostegno di Mibact, Regione Piemonte, Città di Torino-TAP