MATILDE PULEO | Il mio interesse per il rapporto tra silenzio, parola e immagine si inserisce nel grande e complesso ambito culturale che riguarda la filosofia della percezione e l’arte contemporanea. Un campo di studi affascinante in grado di mettere insieme questioni psicologiche, antropologiche e filosofiche ancora da approfondire. Spesso assegniamo al silenzio e alla parola il compito di escludersi a vicenda in una relazione che si basa sulla correlativa o…o, mentre non ci accorgiamo che questa è solo una tra le molte possibilità della loro interazione.
image1In un mondo dove tutti parlano è un errore pensare che il silenzio sia un luogo dove si impoverisce la comunicazione. È vero che a volte diventa complicato distinguere tra parole vuote dove il silenzio è l’ovvia conseguenza di chi non ha alcuna idea e le vuote parole di chi ne ha solo una e ritiene doveroso dirla. Al di sopra si erge magnifico, il silenzio di chi si esclude dal gioco e ne fa tesoro per combattere la barbarie.
Riflettiamoci un momento. Nella normale comunicazione gli uomini accettano e scambiano continuamente un dire e non dire, segno di riflessione e di risposta. Il dialogo sembra fatto di un susseguirsi di parole e silenzi che creano vicinanze e distanze sulla base di un’alterità che magari è solo immaginata o frammentaria ma che pure in una coppia affiatata e di lunga data può essere colta.  Una chiacchierata ma più spesso una lite è fatta da una dinamica altalenante di apertura e chiusura all’altro che fa del silenzio un terreno fertile sia per l’incontro e l’inclusione, che per l’esercizio del controllo. Si tace per esprimere il proprio disappunto, per paura o perché non si è in grado di verbalizzare ciò che si sente.  Stessa cosa può dirsi per il vociare confuso dello spettacolare in arte e le tante esperienze nascoste e rese mute dalla marginalità e non appartenenza.
A ben guardare dunque, il silenzio è parte integrante e si trova all’interno della comunicazione; non fuori.
Mi chiedo allora, quali sono le sue condizioni? Cosa fa del silenzio un codice comunicativo? Per rispondere a questa domanda si potrebbe spaziare nel rumore, in modo da andare a cercare il silenzio o come sospensione involontaria della comunicazione o come strategia consapevole e invito. Di fatto, l’attività artistica sembra dirci con forza che pur avvalendosi di immagini, l’arte non sempre ha intenzione di rappresentare il visibile. Anzi, è piuttosto vero il contrario: avvalendosi di immagini punta a rappresentare l‘invisibile.  Di conseguenza cerca di far vedere ciò che non emerge e di ascoltare ciò che rimane in silenzio per arricchire la visione e tentare di rappresentare la rotondità del reale.

Sì, ma quale silenzio?
Siamo incapaci di vivere nel silenzio: le città non solo sono rumorose, ma gli individui che vi abitano sono facilmente disposti a temere più che a ricercare il silenzio. Se nel piccolo gruppo si verifica un momento di assenza della performance verbale, temiamo questo silenzio come preludio alla crisi. Eppure diciamo di temere il rumore, al punto che abbiamo associato a questa parola una serie di sfumature negative: si parla di rumore acustico, visivo, emotivo, virtuale e intellettuale. Tutti rumori tesi a determinare motivi di scontro e ragioni di separazione e di individualismo esasperato.
L’arte contemporanea del XX secolo ha proposto e riproposto il problema dei significati che possono assumere le immagini, le parole, i silenzi e ciò che sta loro intorno. Si sono fatti testimoni di come si possano veicolare processi e interpretazioni della realtà e fatto vedere come la parola, l’immagine ma anche la sua astrazione possano essere creatrici di significato. Quanto possano orientare il nostro sguardo sul frammento e aprire alla comprensione del silenzio, dell’astrazione, del segno. Ovviamente non sono mancati anche i grandi urlatori che hanno alimentato le chiusure verso problemi non illuminati dai riflettori della celebrità, ma questo fa parte del gioco: è l’altra faccia della medaglia

Diversi silenzi artistici
Gli artisti che nel XX secolo, hanno cercato di interrompere la spirale del silenzio, ci hanno invitato a riflettere sui silenzi imposti dai regimi che hanno negato la libera circolazione di idee e opinioni. Si sono occupati del silenzio inflitto alle minoranze e quello nel quale sono costrette generazioni di donne e nel secolo breve hanno contrastato le insidie della cultura del luogo comune, con ricerche sul silenzio come oggetto utile alla denuncia.
All’interno di questo che definirei “silenzio imposto o da imporre” provo a suggerire alcune figure di rilievo e le loro diverse risposte. Da una parte c’è la perentoria richiesta ai presenti nelle performance di Ives Klein, dall’altra la proposta liberatoria e catartica di Marina Abramović in quegli incontri silenziosi con gli spettatori nel “The artists is present” al MoMA (2012). Da custode silenziosa la Abramović carica di pathos anche la riconciliazione con Ulay, suo compagno di vita ora indotto a trovare la sua voce e a porre in silenzio le sue domande di uomo prima ancora che da artista. Da una parte dunque, un silenzio imposto da combattere come fa Otto Dix dipingendo rabbiosi paesaggi contro l’abisso delle aberrazioni del nazismo.  Dall’altra il silenzio accettato con coraggio come ha fatto il più volte espulso dal partito Milan Kundera.
Esiste poi a mio avviso un’altra tipologia che chiamerei “silenzio qualificato” nel quale come figura centrale di un rito, l’artista parla e pretende di essere ascoltato. Questo è il silenzio di chi ormai osannato come insegnante, maestro e profeta lo usa nel modo maestoso di Joseph Beuys. Svolti secondo un preciso rituale per coloro che più esattamente dovremmo chiamare fedeli, i suoi happening pretendevano il silenzio che precede la rivelazione. L’artista è l’eroe chiamato a questo ruolo salvifico. Le sue azioni teatrali come “I Like America and America Likes Me” (1974), realizzata nella Galleria René Block di New York, gli chiedono grandi imprese come il vivere per cinque giorni con un coyote, cercando di comunicare con lui dopo averlo assunto come simbolo sia dell’America selvaggia che del sogno capitalista, ma il silenzio del pubblico sarà determinante. Il silenzio servirà a riconnettere stati d’animo inconsci di esperienze passate con rappresentazioni drammatiche o grottesche nel presente. Questo silenzio altamente simbolico genererà una relazione gerarchica tra performer e spettatore. Da qui al culto di Beuys come “artista-sciamano”, che accompagna alla performance gesti terapeutici ed azioni esorcistiche, il passo è breve.

joseph-beuys-i-like-america-and-america-likes-1974

Astenersi dal rumore
Un’altra forma non meno enigmatica di silenzio è quello che si fa “compagno dell’assenza”. La non presenza fisica delle cose, la non esistenza di lavoro da vedere e tuttavia, la densità intellettuale è il silenzio che sperimentiamo con Piero Manzoni. Qui il silenzio dell’astensione offre l’azzeramento totale dell’esperienza artistica che raggiunge il suo zenit nel silenzio assoluto de “La Linea di Herning”. Realizzata nel 1960, in una tipografia danese, la linea di 7.200 metri dopo essere stata segnata dall’artista fu sigillata in un cilindro di zinco ed interrata nei giardini dell’Herning Kunstmuseum. Questa linea avrebbe dovuto essere la prima di una serie di linee sepolte, la cui somma avrebbe dovuto eguagliare in lunghezza, l’intera circonferenza del globo. Una linea, filo di un discorso vastissimo e vario come ciò che vive sulla superficie del pianeta Terra tenuto in stretto segreto. Una parola invisibile avvolta dall’austerità del silenzio capace di sottrarsi non solo alla vista ma a tutti gli altri sensi. Di fatto, la linea può essere visualizzata dal pubblico solo attraverso uno sguardo interiore. Silenziosa e mentale, questa linea fa affidamento alla storia, alla geologia, alla geografia o alle mappe. Ognuno alla sua maniera, forse in nulla coincidenti con quella dell’artista ma tutte in grado di risparmiarlo dall’essere assorbito da un contesto volgare, rumoroso e materico.
L’arte visiva sa dunque caricare il silenzio di significati nei quali l’astenersi dal rumore di fondo diventa l’imperativo. Pensiamo agli scacchi dell’ultimo Duchamp. Questi silenzi mirano a far risuonare le parole non dette e forse per imprimere nelle coscienze concetti complessi. Pensieri astratti che liberano l’artista dalla “destinazione sociale”. Duchamp gioca per svincolarsi dalle contingenze della vita in un’astensione vigile che rinuncia al mondo dell’arte per continuare ad essere dadaista.

Il silenzio che invita a parlare
Un altro tipo di silenzio è quello che chiamerei “silenzio interattivo”, dove la dinamica è quella costituita da una più democratica alternanza di silenzio ed espressione. All’interno di questo tipo, la via perseguita è quella della comprensione che stare in silenzio se per un verso definisce gli obiettivi della comunicazione come processo circolare, d’altra parte non lascia muto l’interlocutore. È questo il caso del silenzio delle bottiglie di Giorgio Morandi.  Oggetti ormai totalmente privi di tempo, incapaci di testimoniare qualcosa che possa essere chiamato semplicemente “bottiglia”.

giorgio morandi bottiglie (1)

Oggetti non-dicibili che rendono ragione all’artista quando dice che il mondo dell’astrazione è inesistente perché di fatto, non c’è nulla di più surreale della realtà. Esattamente come quello offerto da “Silence” di Mona Hatoum (1994), dove una culla priva di letto, fatta esclusivamente di fragili tubi di vetro, nel cui silenzio trova posto un bambino che non nascerà. Silenzi che raccontano e invitano ad ampliarne la varietà di sfumature e che richiedono all’osservatore di attivarsi in una conversazione che osserva e aggiunge proprie informazioni cariche di significati. Lo sperimentiamo nel video Emergence” (2003) di Bill Viola. Qui uno spazio, acusticamente e tattilmente denso convince i nostri sensi pur essendo sonoramente … silenzioso.
Concludo con una dimensione più disimpegnata di coinvolgimento collettivo che è il silenzio ludico di Vito Acconci all’interno del quale c’è appello alla parola. Opere come “Murinsel” in Austria o in “Houses up the wall” (1985) sono spazi reali e calpestabili che invitano a riflettere sui meccanismi del potere e sul proprio spazio di azione per poi passare a rilassarsi e meditare. Quello di Acconci è un silenzio derivato da una poetica comportamentista che invita alla riflessione.

vito acconci-Murinsel_graz_summer

Altro approdo della comunicazione, dimensione sottile da interpretare con attenzione e fase divergente della parola questi pochi esempi sono la testimonianza della superiorità del silenzio. Tacere allora. Per prepararsi alla voce dell’altro.