ELENA SCOLARI | La penisola scandinava (con l’accento sulla seconda a come dice la Treccani) è circondata dal mar di Norvegia, dal mare del Nord, dal mar Baltico e dal golfo di Botnia. Un sacco di mare, che noi mediterranei potremmo pensare dia apertura e serenità ma che invece – forse per le onde diacce (fino a quando rimarranno tali) – ha prodotto autori (teatrali, letterari ma anche figurativi) che hanno scavato nelle tetraggini più profonde dell’animo umano.

Henrik Ibsen (1828-1906), norvegese, ha composto 26 opere e Il costruttore Solness è opera del 1892, scritta quindi a 64 anni, quando la paura dei giovani può cominciare a far sentire sdrucciolevole il terreno dei fiordi. Questa paura è infatti uno dei sentimenti più forti e più belli che nel Costruttore si scandagliano: Solness è in sostanza un palazzinaro, forse anche progettista, di grande successo, successo costruito un po’ con l’inganno, un po’ con il non lasciare spazio a bravi successori e assistenti, tenuti nell’ombra. La gloria edificatrice non fa la felicità, ovviamente, perché qualcosa di tremendamente oscuro getta da anni il buio sulla vita di Solness e di sua moglie: un incendio distrusse la loro prima casa, tutti si salvarono, anche i due figli piccoli, ma in seguito all’incidente la donna contrasse un’infezione che rese mortale il latte con cui li allattò e i bambini morirono. Accidenti.
Vedi la fantasia scandinava cosa ti va a inventare pur di far soffocare i personaggi seppellendoli sotto sensi di colpa pesanti come enormi calcinacci. Una madre che fa morire i propri figli nutrendoli è tragicità da record.
E vivere con questo macigno non è cosa che si possa rendere sostenibile, nemmeno con la bioedilizia.

Il testo di Ibsen e la messinscena di Alessandro Serra (regista, curatore di luci e suoni e scenografo) vivono di abbondanti simbologie: Solness soffre di vertigini (non da sempre ma da quel tragico momento in poi), non si riesce a elevare, la zavorra lo tiene a terra; la moglie è impettita da un anestetico anelito verso il dovere, cammina dritta come un alto condominio ma senza riuscire a guardare l’orizzonte, certa che nessun trasloco potrà disperdere il dolore; la scenografia, imponente, è fatta di pannelli neri, alte facciate di palazzi, mobili, che sovrastano gli uomini e li forzano a muoversi secondo la loro disposizione. In una scena molto bella le pareti si stringono sempre più fino a costringere i sette attori in uno spazio piccolissimo, ammassandoli e togliendo loro l’aria.
Va detto che questa sensazione di oppressione alternata colpisce all’inizio ma tende a perdere in soffocamento con la ripetizione degli spostamenti.

Altro elemento non trascurabile, per la comprensione della situazione psicologica dei personaggi, è che i coniugi vivono in una casa dove persiste l’esistenza delle camere dei bambini nonostante nessuno le occupi. Ecco come tenersi in casa questi fantasmi. Qui gli spettri non sono solo i piccoli defunti ma anche le promesse non mantenute, pure quelle fatte a se stessi, in gioventù; sono i vivi che si conducono portando sulle spalle rimorsi, insoddisfazioni e ipocrisie.

La moglie Aline è Renata Palminiello che, inerte e rigorosa, incede asetticamente svolgendo compiti, l’unica cosa cui ancora sa ancorarsi, viva per modo di dire.
Umberto Orsini è Solness, sempre irresistibile per naturalezza, capace di mettere perfino qualche inflessione ironica nella ombrosità ibseniana; impaurito dai giovani, sì, ma giovanile lui stesso, con le maniche della camicia arrotolata e le mani in tasca; pensoso ma apparentemente non del tutto soverchiato dagli eventi. Fino all’arrivo di Hilde (Lucia Lavia), una ragazza che si rifà viva, surrettiziamente, per ricordargli un promessa fattale dieci anni prima, quando lei era ancora bambina: Solness le disse, a casa dei suoi genitori, che le avrebbe consegnato niente meno che un regno, un giorno, e la baciò pure. La giovane, quello viene a reclamare. Bella pretesa.
Lucia Lavia è sicura e abbastanza lasciva da soggiogare la razionalità dell’uomo, che dal suo ingresso si lascia manovrare fino a convincersi a dare l’incarico principale al povero Ragnar, architetto talentuoso che da anni sogna di arrivare al comando dell’impresa, impersonato da Salvo Drago, in un’interpretazione giustamente frustrata e rancorosa.
Una menzione va a Flavio Bonacci, padre di Ragnar, in perfetta sospensione tra l’esigere il riconoscimento oggettivo al valore del figlio e il pietirlo perché in punto di morte.

Lo spettacolo si apre con il bel ticchettio di una macchina per scrivere, sui cui tasti scorrono veloci le dita di Kaja (Chiara Degani), l’impiegata contabile dell’impresa, fidanzata di Ragnar che, con amorosa e diligente pazienza, aspetta la sua promozione per poter metter su famiglia.
Ci sono molti suoni nel lavoro di Serra, che in Macbettu faceva sbattere metalli, legni, pietre, a sottolineare la ferinità della tragedia shakespeariana e qui prova – con una secchezza meno grave – a scandire chiusure mentali e porte serrate con una colonna sonora di rumori nordici e asciutti.
Bellissime le ombre, anch’esse fantasmi che si stagliano netti, su secondi piani piatti ma che assumono tridimensionalità fortissima.
In questo Il costruttore tutto è scuro, cupo, ordinatamente glaciale, le luci bianche tagliano lo spazio e con precisione disegnano l’ineluttabilità di colpe e destini segnati. I sensi di colpa scandinavi pesano più del piombo.

Orsini, attore di una bravura insuperata, discreta ma che dura da un’intera e lunga carriera, sceglie un testo difficile (non il migliore dell’autore norvegese) e sceglie di farsi dirigere da un regista capace di affrontare Ibsen senza timidezza.
Il dramma borghese è spogliato da Serra fin dove è possibile farlo: c’è un’essenzialità estetica che elimina ogni cascame “decorativo” dei salotti per illuminare solo il testo (per la verità un po’ ripetitivo) e affondare completamente nel senso di un vuoto vertiginoso che abita le figure in scena, soprattutto Solness e il gorgo in cui Hilde lo risucchia fino ad annientarlo. La giovane donna lo persuade che i castelli in aria sono l’unica costruzione che importi, Solness salirà sulla torre appena finita di costruire, come su quel campanile dieci anni prima, e lo stordimento lo vincerà.
L’ultima caduta dopo l’ascesa.

IL COSTRUTTORE SOLNESS

da Henrik Ibsen
uno spettacolo di Alessandro Serra
con Umberto Orsini nel ruolo di Solness e Lucia Lavia, Hilde; Renata Palminiello, Aline; Pietro Micci, Dottor Herdal; Chiara Degani, Kaja; Salvo Drago, Ragnar e con Flavio Bonacci nel ruolo di Knut Brovik
produzione Compagnia Orsini e Teatro Stabile dell’Umbria

Teatro Grassi, Milano
24 aprile 2019