MARIANGELA BERARDI | Sono passati otto anni da quando Enzo Vetrano e Stefano Randisi hanno per la prima volta incarnato in scena le figure tracciate sulla carta –  meglio, battute a macchina – dalla mente e dal cuore di Franco Scaldati, il Sarto di Palermo, una delle voci più struggentemente poetiche della scena culturale italiana del ‘900 e, allo stesso tempo, tra quelle ingiustamente poco conosciute e frequentate .
Il lungo legame professionale tra i due attori e autori costituisce l’humus fondamentale per l’esplorazione e la delicata appropriazione di un universo drammaturgico in cui l’uno e il molteplice spesso si sovrappongono, i legami sono vitali, le identità sfumano e si compenetrano.

Nel corso dell’ultima stagione teatrale Vetrano e Randisi hanno spesso proposto in forma di dittico Totò e Vicé (2011) e il più recente Ombre Folli (fine 2017); così è stato anche al Teatro dell’Elfo di Milano, in quella stessa sala Fassbinder dove ancora vivo era per chi scrive il ricordo di Assassina, seconda tappa di questa ideale trilogia (sulla quale per approfondire rimandiamo qui). La possibilità – in alcune date – di poter assistere a  entrambi gli spettacoli nella stessa giornata, è stata preziosa, nella misura in cui temi, immagini, suggestioni dell’uno risuonano inevitabilmente nell’altro.

Totò e Vicé

«…ricemu ca semu Totò e Vicé e stamu ‘n’equilibriu ‘o fil’o tempu…». In equilibrio sul filo del tempo, Totò e Vicé fanno il loro ingresso sul palcoscenico buio e spoglio, rischiarato da un recinto di lumini, luogo immateriale che nei loro racconti fulminei si fa paradiso e inferno, casa e camposanto, strada e teatro. Portano con sè due valigie cariche dei segni del tempo, raggiungono una panchina con passo incerto; sembrano vagabondare da tempo immemore, con i loro vestiti tenuti su da cintole di spago, coperti da grandi cappotti rattoppati.
Partendo da due personaggi palermitani realmente esistiti, che agli angoli del mercato del Capo proponevano alcune scenette facendo poi la colletta tra il pubblico, Scaldati distilla poeticamente degli archetipi. La drammaturgia è composta da brevi frammenti di dialogo, scintille che illuminano il senso della vita e del mondo. Nati come sipari tra uno spettacolo e l’altro, debuttano con una messa in scena organica nel 1993. Da allora Scaldati non ha mai smesso di ampliarne il testo (pubblicato nella sua ultima redazione da Cue Press) rimanendo in assiduo contatto anche con Vetrano e Randisi dal momento in cui lo hanno rappresentato.

Se il lavoro dei primi interpreti, lo stesso Franco Scaldati insieme a Gaspare Cucinella, rivelava un’attenzione alla comicità diretta, al sapore grottesco ed espressionista, una materialità e concretezza tutta popolare e terrigna, sensibilmente diverso è l’approccio dei due attori e registi oggi. Vetrano e Randisi fanno di Totò e Vicé figure impalpabili, le cui voci sottili si caricano della dolcezza e del dolore che stanno dietro il paradosso dell’essere.
«…Siamo fatti di cotone sottile, o siamo fatti con fili di seta fatata… diavoli e angeli, siamo…o siamo un segno sopra la carta e basta… ».
Santi e poveri diavoli, eterni bambini e ombre di uomini, il loro dialogare ha una carica esistenziale. I loro occhi sono capaci di cogliersi in continuo mutamento”, di vedere che nulla è definito, non l’identità, non gli opposti, non la vita e la morte. Tra realtà e sogno esiste un confine labilissimo, una questione di vocali come nei suoni siciliani delle parole sugnu e sogno. Sono o sogno?

Nel commovente gioco della loro esistenza simbiotica, l’uno specchio dell’altro, Totò e Vicé giocano a nascondino, finchè ad accompagnarci non rimangono che le loro voci, luminose lanterne sospese nella notte.

Ombre folli – Foto Tommaso La Pera

«È la notte un raduno d’ombre / Sono le ombre veli nella luce», recitano due versi di Scaldati a titolo di altrettante sezioni di Totò e Vicé. Inafferrabili ombre anch’essi, come quelle che vengono evocate nel secondo spettacolo del dittico, basato su un testo ancora inedito del drammaturgo palermitano, partendo dal quale i registi hanno operato una selezione di brani.

Il linguaggio scenico di Ombre folli presenta tratti comuni al precedente lavoro: anche qui ci immergiamo in un limbo emotivo dove solo pochi essenziali elementi sono reali: le poltrone coperte da lenzuola, una scrivania con la macchina da scrivere, i lumini a creare un corridoio nella penombra. Ora più ora meno efficace è invece l’introduzione di proiezioni video che amplificano i racconti delle ombre.
Parole battute a macchina si materializzano, tradotte, alla vista e all’udito. Uno scrittore (Randisi), rientrato al buio, trova un uomo morto ad attenderlo: la sua presenza costringe a farsi domande, ad affacciarsi ai bordi della propria condizione.
Un uomo con mazzolino di fiori (Vetrano) percorre lo stretto corridoio di piccole fiamme, deponendo passo dopo passo il ricordo di una vita faticosa ma non per questo priva di gentilezza.
Al di là del corridoio, due ombre fanno di una sola stanza il loro intimo vortice. È il racconto più lungo, e più intenso. Gli attori, in una fissità icastica, danno corpo a due operai di un’officina meccanica. Entrambi scapoli, alle prese con un piacere proibito, una tigre di erotismo “invertito” che la prima ombra indossa con brivido di orgasmo – abbracciando gli amanti «fino al punto di morte» –, mentre la seconda vuole a ogni costo chiudere in gabbia.

Ombre Folli – Foto Tommaso Le Pera

Il primo è garrusu, se ne vanta, è fiero della sua parrucca, della bocca pittata. Il secondo lo nega a se stesso, rinchiude il suo collega in casa per salvarlo, o per avere finalmente anche lui diritto a un momento d’amore. Nessun accento interpretativo fuori luogo, ma una tensione vivida e costante.
La lingua siciliana di Scaldati è qui meno rarefatta, ma cruda e tagliente, violenta e aggressiva. Mai volgare, ed è l’insondabile mistero della poesia. Mentre un’ombra parla, l’altra sottolinea in italiano, come un’eco, parole ed espressioni centrali. Non è un tradurre, ma un delicato intervenire nel discorso dell’altro, sottolineare significati, fondere ancora una volta le identità, le voci di due che si fanno uno.

Come si diceva, l’affiancamento dei due spettacoli offre la possibilità di cogliere in maniera immediata e perciò apprezzare questo scarto linguistico assieme alle infinite potenzialità espressive e musicali del siciliano. È impensabile una traduzione che non sia tradimento; Vetrano e Randisi non cadono in questa trappola. I pochi bagliori di italiano sono un necessario orientamento per lo spettatore, ma non sostituiscono mai il testo originale.
Dal punto di vista interpretativo invece, la qualità del movimento incessante, caratteristica delle menti, delle parole, dei corpi di Totò e Vicé, anime erranti, assume tanta più forza quando affiancata alla sostanziale immobilità dei corpi in cui avvengono i racconti di Ombre Folli, e viceversa. Scelte che disegnano un’identità precisa dei due lavori, che così differentemente si imprimono nel ricordo.

Nelle mani e nella regia del duo palermitano i testi del Sarto acquistano dunque non solo nuova vita ma nuova forma, pur nella fedeltà assoluta al lirismo e alla lingua originari. Creano una cifra emotiva che lega i due spettacoli e che li rende parti di un discorso unitario, pur con le differenze evidenziate nella drammaturgia e nella resa scenica.
Le ombre accompagnano lo spettatore ancora a lungo, dopo essersi dissolte in un sorriso finale e negli echi degli applausi.

 

TOTÒ E VICÉ

di Franco Scaldati
regia ed interpretazione Enzo Vetrano e Stefano Randisi
disegno luci Maurizio Viani
costumi Mela Dell’Erba
tecnico luci e audio Antonio Rinaldi
produzione Cooperativa Le Tre Corde – Compagnia Vetrano/Randisi

OMBRE FOLLI

di Franco Scaldati
interpretazione e regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi
video e luci Antonio Rinaldi
produzione Cooperativa Le Tre Corde – Compagnia Vetrano/Randisi

Teatro Elfo Puccini, Milano
14 aprile 2019