RENZO FRANCABANDERA | Diciamo che questa storia dello spettatore, rispetto alla comunicazione, è un prodotto maturo. Tanto maturo che rischia di cadere dall’albero e ammuffire per terra se non arrivano presto riflessioni oltre la parola che va svuotandosi di metasignificati, per i tanti, troppi, che ne sono arrivati. Uno slogan, una direttrice di movimento quella dell’audience development, su cui ha soffiato la UE con i suoi bandi per portare nuova consapevolezza, e che ha trovato nelle diverse nazioni paladini, progetti, rassegne.
In Italia c’è stato un grande fermento sul tema, tanto da arrivare a un Festival, che si tiene tutti gli anni ad Arezzo, promosso dal Rete Teatrale Aretina e diretto da Laura Caruso, incentrato proprio sulla figura dello spettatore.
Un territorio, quello toscano, dove è nata una tassonomia legata al pubblico, che ha portato questi tranquilli signori della platea nella dimensione trasognata dei “visionari”, come sono stati battezzati a Kilowatt Festival quelli fra loro coinvolti nella scelta di alcuni degli spettacoli della rassegna estiva dopo aver visionato gli spettacoli durante l’inverno. E che dire del più omerico e periglioso compito di “spettatori erranti”: errare humanum est!
Il Festival dello Spettatore appare consapevole di questa risacca, e con intelligenza investe sul rapporto con le istituzioni del territorio, come il pionieristico Liceo Teatrale, in un dialogo che si basa sul lavoro militante sull’asse fra una presidenza illuminata e la tipica docente sognatrice che cercano non senza difficoltà e con poche risorse di coinvolgere i ragazzi in progetti di crescita. Si favoriscono incontri.
Ecco, allora, che davanti a tre manager culturali come Andrea Maulini, consulente per la comunicazione di alcuni dei maggiori enti teatrali e lirici italiani, Mimma Gallina, fra le massime esperte di organizzazione per lo spettacolo dal vivo e docente alla Paolo Grassi, e Antonio Taormina, che si occupa di management culturale in Italia insegnando al DAMS di Bologna, il tema finisce per essere quello del pensare a come fare dell’arte un lavoro.
Paradossale, ma nemmeno tanto, pensare che al Festival dello spettatore le conferenze e gli incontri siano affollati di più da chi il teatro sogna di farlo, da chi vuole vivere l’arte dal lato della produzione.
Poi sono arrivati da tutta Italia, eh. La domenica gli “erranti” si sono incontrati, come da rituale, arrivando con i pullman da tantissime regioni. Gran selfie con una bella folla dietro la bacchetta magica dell’amico Pacini, ad immortalare la presenza viva di una rappresentanza di militanza culturale, che certamente ha una sua romantica ragion d’essere. E il Festival accoglie ma favorisce anche i giusti dubbi che sempre devono alimentare le scelte: questa consapevolezza, ad esempio, in quale forma va vissuta? Sono costoro spettatori di rango evoluto, rispetto agli altri?
Possiamo postulare l’esistenza di pubblici diversi? Sono stati illuminati da “maestri” (era il tema del Festival quest’anno). O sono coinvolti in pratiche di social engagement fra periferie, sogni di riscatto e forme di laboratorio sociale (era il tema dell’anno scorso)?
La divisione fra il pubblico “normale”, quello del teatro di intrattenimento occasionale per capirci, e quello invece allenato alle visioni un po’ più ardite, non fosse altro che per una pratica continuativa dello sguardo, in fondo non è sempre esistita?
Sono serviti/servono i progetti sugli spettatori, o alla fine, nei momenti di confronto, restano piuttosto gli operatori a discutere riguardo agli spettatori?
E gli spettatori hanno anche il diritto di starsene per i fatti loro tranquilli, come è diritto del lettore interrompere la lettura (si veda il famoso decalogo del lettore che campeggia in tutte le librerie)?
Il collega Pocosgnich qualche giorno fa in un post su Facebook dichiarava la noia solenne per l’entrata in scena di quegli attori che si aggirano per il palcoscenico guardandosi attorno come se fossero in chissà quale luogo esotico…
Aggiungo la mia, di noia, quando quello stesso attore, invece che entrare dalle quinte, accede al palco dopo una camminata fra il pubblico, o senta l’intimo bisogno di arrivare a frignare seduto in proscenio con un microfono in mano, uscendo dal suo personaggio per diventare la persona attore (postdrammatico, molto postdrammatico!). E che dire quando poi va a rompere le scatole a qualcuno in sala, chiedendo al datore luci di illuminare tizio o caio, interrompendone il sonno (sempre caro mi fu lo spettatore addormentato di cui Flaiano cantò le gesta!).
Dormire a teatro è BELLISSIMO. Quell’istante sublime del passaggio fra le battute dell’attore che si perdono in lontananza, le ultime visioni della scena, la noia o la stanchezza che ci tuffano lentamente nell’anfratto dell’inconscio. I sogni, i micro sonni che si fanno a teatro: una bellezza assoluta!
Allora quasi viene da dire: “Lasciate lo spettatore in pace per un po’!”
Aspetto con ansia lo spettacolo in cui gli attori erigano un muro. Che finalmente si veda questa quarta parete: abbatterla per abbatterla, non c’è bisogno, i neuroni specchio funzionano anche a distanza e l’attore mi lasci pure dove sto. L’importante, come dimostrano gli studi, è che sia bravo.
Ecco. L’arte continua ad aver bisogno di essere praticata con serietà. E questo magari è giusto venga approfondito, lasciando in fondo anche a ciascuno di scegliere da che parte del palco stare e, una volta fatta la scelta, studiare, studiare, studiare!
Al prossimo anno, Arezzo, continuando ad errare.