RENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | MB: L’astuzia come ascensore sociale, la comicità come livella. E sopra tutto, l’impudenza del sistema, che si fa beffe sia di chi sta in basso, sia di chi sta in alto. Grottesco, allora, è sperare di raddrizzare il mondo giocando con le sue regole, quando invece bisognerebbe cominciare proprio con il cambiare quelle, imponendone di nuove, più giuste ed eque. Chi ruba un piede è fortunato in amore è un «divertimento» per stessa ammissione del suo autore, Dario Fo. Lo scrive e interpreta con Franca Rame nel 1961: il futuro Premio Nobel è scanzonato, erede del circo e dell’avanspettacolo, ancora lontano dall’impegno e dalla politica. In prima nazionale al Teatro Metastasio di Prato, la versione che dirigono Giulia Gallo e Giovanni Guerrieri/I Sacchi di Sabbia preme a piene mani sul tasto della commedia all’italiana. La leggerezza, tuttavia, è lo specchio usato per riflettere la superficialità dei rapporti di coppia, la meschinità delle relazioni di potere. Nascosta sotto una facciata di battute, smorfie e prese in giro, si cela un cuore pulsante spirito critico, che è compito del pubblico andare a scovare.

RF: È un ambiente drammaturgico, questo di Chi ruba un piede, figlio di un tempo in cui la nuova borghesia tenta la scalata dopo gli anni della miseria. Il boom economico di quel decennio ritrae lo stesso paesaggio sociale di C’eravamo tanto amati: una borghesia rampante, con i suoi vizi privati e le pubbliche virtù, contamina, con la sua sfacciata intraprendenza senza regole, il vivere povero e ingenuo che usciva dalla guerra.
Su uno sfondo di tram che passano, nuovi cantieri edilizi, di uffici, segretarie, case con arredamenti e interni design, la società prova a mutare. Viene in mente La nebbiosa di Pasolini, che racconta la Milano delle periferie. Qui Fo resta nella satira sociale al bordo del surreale.

MB: Ci troviamo, da copione, in uno «scollacciato contesto anni ’60». Questa specie di Mandragola di Machiavelli, con ladri improvvisati e palazzinari senza scrupoli, si mostra come un teatro di burattini. Su una scena ridotta a pochi elementi, simbolici quanto volutamente artefatti (le colonne e le statue del Museo Archeologico, le sedie, i tavoli, i mobiletti dell’ufficio e della casa padronale), gli attori non sono personaggi, ma caratteri quasi bidimensionali, funzioni al servizio del meccanismo comico. L’apertura continua al pubblico non lascia scampo a dubbi: l’obiettivo dichiarato è divertire. Spesso frontali alla sala, Massimo Grigò, Alessia Innocenti, Annibale Pavone, Tommaso Massimo Rotella, Tommaso Taddei si producono in a parte di presentazione, propria o altrui, e di commento. Un uso del teatro e dei suoi strumenti più evidenti e diretti utile a smascherare la natura posticcia dei travestimenti nei costume e nelle idee. Criminale, diciamo così, non è il voler essere come gli altri o addirittura migliori: è il non sapersi riconoscere (per quello che si è). Il sorriso, di conseguenza, ti si ritorce contro.

Foto Luca Del Pia

RF: È il motivo per cui in fondo la recita si apre con due “personaggi” quasi goldoniani, a introdurre il pubblico nella commedia. Spariranno dietro il sipario per dare poi inizio alla vicenda, che li vede immersi in una iniziale esilarante penombra, intenti a compiere un furto in un museo. Di qui in avanti una commedia degli equivoci, un vaudeville sconnesso,  con cui la trama, fra retaggi maschilisti, nuovo ruolo della donna, mette assieme alcuni cortocircuiti di un tempo passato, ma che basta poco per ritrovare dietro l’angolo: è forse il motivo per cui la regia ha scelto di lavorare proprio su questo testo, sicuramente fra i meno praticati del Premio Nobel. L’allestimento strizza l’occhio al linguaggio della rivista, alle movenze di una generazione di interpreti della tv, agli sketches della tv in bianco e nero: Rascel, Agus, Vianello, Cochi e Renato.

MB: Dunque la commedia ha le tinte del dramma, o meglio il dramma non può che presentarsi nella forma della commedia. Tanto che negli intermezzi tra uno sketch e l’altro, con gli interpreti impegnati anche nel cambio delle scene, ci si aspetta salti fuori da un momento all’altro una pubblicità di Carosello. Certo, la ridda di equivoci e malintesi vari perde progressivamente forza, slancio, incisività, per via di un generale senso di già visto, di antiquato nei termini e nelle situazioni. Ci sono, qua e là, alcuni riferimenti all’oggi (l’euro, ad esempio, invece che le lire), ma, piuttosto che a una volontà di adattare il testo, sembra rispondere semplicemente all’intenzione di aggiornarlo.

RF: Ci sono testi che respirano un’epoca. Questo, anche nella forma scenica dell’allestimento, con l’arredamento d’epoca realizzato da I sacchi di sabbia e i costumi di Chiara Lanzillotta, guarda sicuramente non all’oggi ma al mondo in cui la drammaturgia è stata scritta o giù di lì. Un tuffo nel passato, un come eravamo il cui dialogo col presente è volutamente circoscritto.

MB: Non avrebbe guastato, quindi, un po’ di coraggio in più per far risuonare Chi ruba un piede è fortunato in amore nelle sue note tuttora contemporanee, tra cui l’autodeterminazione sociale e il benessere collettivo; i legami tra verità, ceto e censo; il maschilismo e la questione femminile. Gallo e Guerrieri si sono concentrati sulla messa in scena, sulla rappresentazione, astenendosi però dall’interpretazione, ossia dal trovare nelle pieghe di ciò che Fo ha scritto quello che all’epoca non si immaginava nemmeno di poter dire. In definitiva, un’operazione che poteva essere di riscoperta e di rilettura di un classico, a suo modo profetico, si è autolimitata a una sorta di “archeologia dell’intrattenimento”. Con il risultato di ridere e pensare solo a metà. E con lo sguardo rivolto all’indietro.

Foto Luca Del Pia

RF: Probabilmente ci avranno anche pensato alla possibilità di aggiornare il testo, a portarlo in un oggi che non fosse sforzato. Ma forse anche questo deve essere parso complicato. Il rischio era quello di intellettualizzare un testo semplice nella sua linearità divertente, cercando inutili complicazioni. Si è invece preferito riproporre un mondo, il suo tempo, il suo linguaggio come se anche da questo punto di vista fossimo in un museo: un museo della lingua e della società dal quale I sacchi di sabbia rubano questo pezzo di un autore che fa sempre bene conoscere meglio.
Poi davvero questo testo avrebbe retto coraggiose operazioni di riscrittura? Forse no. Quindi meglio un onesto allestimento dal sapore vintage e in chiaro rimando con un tempo preciso della storia nazionale. Anche per dirci che in fondo in fondo, poi, tanto avanti non siamo andati.

 

CHI RUBA UN PIEDE È FORTUNATO IN AMORE

di Dario Fo
con Massimo Grigò, Alessia Innocenti, Annibale Pavone, Tommaso Massimo Rotella, Tommaso Taddei
scene I Sacchi di Sabbia
luci Massimo Galardini
costumi Chiara Lanzillotta
realizzazione scene Laboratorio del Teatro Metastasio
capo macchinista costruttore Tobia Grassi
macchinista costruttore Edoardo Ridi
realizzazione piede Noela Lotti
musiche originali di Fiorenzo Carpi arrangiate ed eseguite da Tommaso Novi
regia Giulia Gallo e Giovanni Guerrieri/I Sacchi di Sabbia produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con I Sacchi di Sabbia e Armunia residenze artistiche

Prima Nazionale
Teatro Metastasio di Prato
16 gennaio 2020