ELENA ZETA GRIMALDI | Siamo ormai giunti alla fine della chiusura (quasi) totale, e in molti si chiedono che fine abbiano fatto i bambini: a parte qualche giorno in cui la ruota dell’opinione pubblica si è fermata sulla possibilità di farli uscire a prendere un’ora d’aria (con la decenza di non chiamarli untori, ma investendoli con la stessa social-gogna dei famigerati “runners” e altri capri espiatori) il dibattito su quella che è considerata l’età più delicata dello sviluppo è stato praticamente assente dal mainstream. Così come altri temi fino a pochissimo tempo fa al centro dell’attenzione: la salvaguardia del pianeta, il confronto tra culture, la disuguaglianza sociale, la privacy, solo per dirne qualcuno.
Forse non è un caso che in questo “tempo sospeso”, fase acuta del presentismo moderno, tutto ciò che riguarda l’organizzazione (ma anche l’immaginazione) del futuro, dell’umanità come dell’ambiente, sia scomparso dietro la cortina del contingente e dell’urgenza.
Nella speranza di contribuire a far tornare a galla un po’ di futuri, ho raggiunto telefonicamente Adriana Zamboni, tra i soci fondatori del fu Laboratorio Teatro Settimo, che, con diverse compagnie, produzioni e associazioni, si occupa di teatro ragazzi (branca troppo spesso ancora percepita come “un intrattenimento come un altro”), allestendo spettacoli ed elaborando progetti che riguardano l’aspetto pedagogico, l’animazione teatrale e l’educazione.
In questo momento quali difficoltà sta affrontando nel suo lavoro?
Tutti noi lavoratori dello spettacolo siamo immediatamente stati estromessi dalle scuole, dai teatri, dai luoghi in cui facevamo i laboratori, eliminando tutte quelle situazioni in cui il contatto è essenziale – non necessariamente il contatto fisico, ma sensoriale, essere nello stesso spazio, procedere in un’unica direzione creativa. Tutto è stato chiuso, e chissà quando si riaprirà. Quella di cui mi occupo è una realtà storica, il Comune di Settimo Torinese da più di trent’anni crede nell’investimento sulla Cultura, nel fare un certo tipo di attività con i bambini per tirare fuori quelle espressività che i linguaggi canonici non riescono ad attivare e che, invece, il teatro fa benissimo: nel momento in cui chiedi a un bambino di essere “meno incasellato”, meno seduto, è molto più probabile che vengano fuori degli aspetti del suo carattere, della sua creatività, che nella didattica tradizionale non emergono.
Anche la circuitazione degli spettacoli è un problema: per noi che facciamo un teatro che si rivolge maggiormente a un pubblico di ragazzi, il periodo più intenso di tournée corrisponde quasi sempre a febbraio-marzo-aprile. In questo periodo ci sono anche molti festival, per esempio Giocateatro, una sorta di vetrina in cui la Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino presenta produzioni interne e compagnie ospiti [per PAC ne hanno scritto Laura Bevione ed Elena Scolari, NdR]. Il festival non si può fare, e quindi non si può neanche pensare a una prossima stagione, perché la stagione nei teatri, le repliche domenicali per le famiglie o nelle scuole le devi organizzare entro la fine dell’anno scolastico precedente. Quindi il prossimo anno c’è un grande punto interrogativo.
Si sta riuscendo a confrontarsi, per portare a galla problemi e possibili soluzioni?
Ormai siamo tutti collegati con queste piattaforme che ci permettono di essere in contemporanea e, se non altro, di pensare insieme, di parlare insieme, magari anche di fare delle prove insieme. Io collaboro anche con la compagnia Giallo Mare Minimal Teatro, che è una compagnia storica di Empoli, e ci siamo riuniti, abbiamo fatto questa “zoommata” per cercare di capire che cosa fare. Una sorta di chiamata alle armi, tutti insieme: cosa facciamo? Come riprendiamo? Le rassegne estive, ad esempio, che si facevano con gran divertimento e grande pullulare di spettatori insieme, vicini… come sarà possibile gestirle? Sicuramente, dal punto di vista dell’autofinanziamento, del poterne venire a capo economicamente attraverso un pubblico pagante, in queste condizioni siamo assolutamente in perdita: un teatro come quello della Casa del Teatro, per esempio, che contiene 250 posti, al massimo potrebbe contenere 100 spettatori. Anche l’estiva è impraticabile: cosa fai? Fai dei monologhi? Chiedi agli attori di recitare a distanza? Si mettono delle prolunghe?!… Magari noi, che siamo degli strani animali, c’inventeremo qualcosa di paradossale e ironico in cui gli attori si metteranno dei prolungamenti alle braccia per tenere lontani i colleghi… Però, in questo momento, una platea che abbia voglia di nuovo di uscire, mettersi a contatto con altre persone, andare in un luogo per vedere uno spettacolo, non sarà facile da ricostruire, perché c’è anche molta paura.
Mi è capitato in questi giorni di sentire più volte una citazione di Tucidide: Atene è stata sconfitta non dalla peste ma dalla paura della peste. È un po’ questo che ci sta succedendo, no? Ci metteresti tuo figlio in una platea a vedere uno spettacolo teatrale, a contatto con gli altri bambini, perché lui si diverte? Non sarà facile sconfiggere questa paura della peste.
Cosa comporta l’inserimento del teatro nel mondo virtuale del web?
Tutti noi teatranti, come si vede dal diffondersi di cose on line, ci stiamo autopromuovendo, stiamo cercando anche di sollevare gli animi facendo queste cose. Ben vengano… ma capire come tirarci fuori il pagamento delle bollette… non lo so! E soprattutto chiariamoci sul fatto che non è teatro: ti confronti con un altro media, non è il corpo a corpo, non è essere lì, non è l’energia che si genera nel teatro. Quando io guardo una cosa attraverso un computer, attraverso uno smartphone, vedo una mini-televisione, no? A teatro hai la possibilità di scegliere cosa guardare (i bambini più ancora di noi, i bambini passa la mosca e guardano la mosca), non hai un primo piano, un piano americano o un landscape… Beh, sto dicendo delle cose ovvie, delle banalità. Però molti sembra che non se ne rendano tanto conto che se io mi presento così, come sono a casa, invece di dare un’emozione tutto risulta molto piatto, molto banale… Bisogna confrontarsi con un altro linguaggio, che prenda un po’ il linguaggio del teatro, ma che non è teatro.
Io per esempio, per raccontare le mie storiellette ho cercato di costruirmi una maschera, un’immagine da dare a questo contesto. Credo che dovremo confrontarci con questo per un po’ di tempo, purtroppo. E dovremmo cercare di capire come ricavarci anche delle economie, perché queste cose qua non ti danno economia, a meno che tu non abbia un sacco di like, e che diventi un superinfluencer, che tutti vengano da te e dicano “Ma guarda quella cosa, eh? È bellissima!”… Che non lo sai neanche per che cosa diventa “bellissima” in alcuni casi, è abbastanza anomalo.
Qual è l’idea che sta dietro alle sue storiellette?
Io ho una linea bianca sul naso e sotto gli occhi, è una sorta di maschera quella che mi costruisco, ed è anche una ritualità per entrare in un gioco. Questa figura è una specie di sciamana, una donna che non ha perso la voglia di immaginare e stupirsi sulle cose. È proprio grazie a questa rinnovata voglia di mettersi in gioco che propongo questo tipo di lavori per i piccoli, perché spero che i grandi che li accompagnano carpiscano delle cose che suggerisco loro, diventino loro stessi attori nei confronti dei loro figli o dei loro allievi. Quando mi dicono “Raccontami una storia per i miei bambini che non so cosa fare”… io non racconto una storia via internet per i bambini, io la racconto per i genitori, sono poi i genitori che dovrebbero prendere quelle mie suggestioni e farle loro per farla diventare la loro storia, no? È un po’ questo quello che il teatro deve fare, deve suggerire dei linguaggi, un sistema, un modo per scardinare certe ruggini, certe comodità, che alcuni adulti continuano ad avere nei confronti dei più piccoli. Si scambia l’autorevolezza per una comoda poltrona in cui io faccio alcune cose e altre no, non posso più farle perché sono un adulto, e gli adulti certe cose non le devono più fare. Questo è il centenario rodariano, andiamo a rileggere Rodari, andiamo a rileggere Grammatica della fantasia! Dobbiamo fare tesoro di queste esperienze. Avere la nostra posizione di adulto ma, nello stesso tempo, non perdere il divertimento del gioco. Jouer, to play, no? Questa cosa che ripetiamo: in francese e in inglese “recitare” si dice come “giocare”. Ed è quello che noi cerchiamo di insegnare, poi a volte ce la fai di più, altre ce la fai di meno; la ricetta non è sempre impeccabile.
Tanto più che, soprattutto ai bambini, non si parla solo con le parole. Lei nei suoi spettacoli utilizza immagini, suoni, ma anche odori, tatto, sapori… Quanto è importante mantenere un rapporto sensoriale con il mondo, che in questo momento ci è negato?
È fondamentale non perdere la capacità di concentrarsi sulle cose che ti passano intorno, a tutto tondo. I miei spettacoli sono molto visivo-sensoriali perché da sempre io (ma non solo io) sostengo che il teatro è tutto ciò che sta nella cornice dello spazio scenico, quindi una luce, come mi muovo, un suono, un profumo… qualunque cosa io metta non è decorazione ma racconta. I bambini a questa cosa fanno molto caso: quanto entri in una classe, i bambini vedono subito come sei vestita, se hai messo il rossetto, se hai un ciondolo, qualunque cosa la notano. E sono in grado di dirti che la volta precedente eri diversa. Figuriamoci in uno spazio scenico: tutto crea l’humus, la narrazione, quello che vuoi raccontare. Inoltre i bambini vengono costretti sempre di più a un’attenzione veloce, quindi bisogna anche capire come riportarli a un’attenzione più puntuale: cosa succede qui? Senti un po’ questo rumore… e questo profumo? Annusa un po’… Alla fine uno smartphone non ti può dare un sapore o un profumo.
Dopodiché, c’è anche un contesto culturale: il mio spettacolo è pensato qui, per il contesto culturale in cui sono nata, vivo, cresco. Bisogna vedere poi, nel momento in cui il mio spettacolo viene fatto, ad esempio, a Shangai, che cosa vien fuori.
Siamo stati a novembre scorso al Festival di Mantova che s’intitola Segni d’infanzia, un’altra rassegna intelligentissima, internazionale. Lo spettacolo che abbiamo presentato ha pochissimo testo, è l’ultima mia produzione sostenuta dalla Fondazione TRG Onlus di Torino e s’intitola Chi sei?, una partitura teatrale che ha una doppia versione, per i nidi e per le scuole dell’infanzia. Una delegazione di Shangai era venuta a vedere quello per i nidi, e ci hanno detto “Allora ci vedremo questa estate”. Noi eravamo tutte contente, stavamo già facendo la valigia… ma chiaramente questa cosa non si potrà fare. Eravamo molto curiosi di vedere come i bambini, le famiglie, avrebbero reagito alla nostra proposta: il confronto culturale si sviluppa su più livelli, la parola in quel caso è proprio l’ultima cosa, perché parliamo due lingue diverse!
In molti suoi lavori si parla di ecologia, di biosfera, del pianeta Terra, e della nostra influenza su di esso, temi che fino a due mesi fa erano all’ordine del giorno, ma che in questo “tempo sospeso” sembrano scomparsi. Come ha iniziato a lavorare sulla coscienza ecologica?
Tutto quello che è coscienza ecologica in qualche modo l’ho sviluppato attraverso una serie di allestimenti che ho fatto grazie a Inteatro (che adesso è convogliato in Marche Teatro, un’istituzione di emanazione pubblica riconosciuta e finanziata anche dal MiBACT). Inteatro è un’associazione che si occupa di teatro di ricerca, di danza, e tutti gli anni organizza un bellissimo Festival, che si svolge tra Ancona e Polverigi [Laura Bevione ce ne ha raccontato una serata, NdR]. Per molto tempo ho lavorato insieme a loro intorno a queste tematiche legate all’ambiente, abbiamo allestito il progetto Teatro della Biosphera, una sorta di cupola di 8 metri di diametro in cui stanno 40 spettatori, che ha trattato tre temi diversi (biodiversità, acqua, energia) in tre allestimenti diversi; e poi anche un Gioco dell’oca verde, che ha girato parecchio, dove pedine umane si confrontavano attraverso delle “prove di abilità” sulla raccolta differenziata, sul risparmio dell’acqua, sull’energia, eccetera. Quindi mi sono un po’ infarinata di tutta una serie di concetti che inevitabilmente ti fanno prendere coscienza. Poi diventa faticoso andare a fare la spesa al supermercato, qualunque cosa prendi in mano dici “Mamma mia! Ma questa roba qui io non posso!”, e per fare una spesa di un quarto d’ora impieghi tre ore. Dopodiché, noi abbiamo due figli, questi due figli la coscienza ecologica ce l’hanno, molto più di me: loro stanno contribuendo a questa salvezza del pianeta. Beh, salvezza di noi stessi… tanto il pianeta se ne frega altamente, nel momento in cui noi non ci siamo va avanti benissimo, siamo noi che ci dobbiamo preoccupare!
Quindi è vero che “I bambini salveranno il mondo”?
I bambini salveranno il mondo… se noi glielo permettiamo! Noi adulti dobbiamo considerare che abbiamo fatto nascere delle creature in un ambiente che, bene o male, abbiamo generato, che si è stratificato nei tempi ed è diventato questa roba qua che ci troviamo, che ci plastifica. Siamo tutti preoccupati “Ah, il mare! Ah, i pesci! Ah, l’aria!”… eh, ma qualcuno ce l’ha messa questa roba, non è che si è creata da sola. C’è questa sorta di ammissione di colpa: “Eh, ragazzi, noi vi consegniamo purtroppo un ambiente contaminato. Ci dispiace, è andata così! Abbiamo fatto una schifezza, adesso tocca a voi pulire”… ah, bella storia! Mi auguro che i giovani riescano a sviluppare una coscienza maggiore di chi li ha preceduti, nei confronti dell’ambiente. Io ho assistito al boom economico, alla rinascita nel dopoguerra, e via dicendo: tutte queste cose che hanno permesso di generare ricchezze e “benessere” (tra virgolette) poi hanno mostrato l’altra faccia della medaglia. E adesso ci troviamo a fare i conti con tutto ciò che abbiamo generato in questi anni di “benessere” (tra virgolette). Quindi, i bambini salvano il mondo se in qualche modo riescono a bloccare gli adulti in questa sconsiderata corsa allo pseudo-benessere materiale.
In fondo, lo stiamo capendo in questa forzata stasi, quali sono le cose che ci rendono veramente felici?
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