RENZO FRANCABANDERA e ESTER FORMATO | EF: Da mesi i teatri sono chiusi. In verità – mi sono chiesta in questo periodo – il teatro a me è mancato? La risposta è no. Del resto, ancora adesso continuo a sentirmi scollata dalla città, dalla collettività, da ogni cosa sia la vita fuori dal luogo protetto che è casa mia. Dapprima avevo una sorta di senso di colpa, sentirsi profondamente disinteressati verso una propria grande passione significa svuotarsi. Ma forse occorre essere svuotati per poter nuovamente accogliere.

RF: I teatri riaprono fra meno di dieci giorni ed è una buona notizia a prescindere da tutto, perché comunque sono un luogo di fruizione culturale importante; riaverli alla società significa che la gravità della questione sanitaria si va alleviando. Ma cosa sia stato fare a meno del teatro e se sia mancato è un quesito molto interessante.
Sicuramente, ove anche fosse mancato (invero poco, se non a chi ne vive come lavoro, e poi magari cerchiamo anche di capire perché), la comunità degli artisti ha vissuto un momento di importante riflessione, culminato in questi giorni in manifestazioni di piazza di artisti autoconvocati, in difesa dei diritti del lavoro, ad esempio. Ma qui entriamo proprio in un tema sul quale ho riflettuto molto in questi mesi: la dicotomia fra teatro come arte, linguaggio, e teatro  come professione.
Esiste un teatro fuori dalla professione del teatrante? Il teatro è professione o non è? Perchè anche quando è professione e non “amatorialità”, abbiamo visto e anche detto su queste pagine, le contraddizioni sull’esercizio dei diritti e della dignità del lavoro sono non poco problematiche.

Disegno di Renzo Francabandera

EF: Ho cercato di prendere in mano alcuni pezzi della questione, li sto passando al setaccio della mia mente e naturalmente ho incominciato a estendere il concetto di teatro ad altre cose.
Nella mia esperienza di spettatrice che cerca di affinare anche la pratica della critica teatrale, credo che ogni spettacolo visto sia indissolubilmente intrecciato a piccoli – talvolta insignificanti – frammenti autobiografici. Il teatro cui ho assistito è fatto di incontri. Preziosissimi. Il teatro che mi è capitato di vedere è il più caro filtro del denso rapporto che ho avuto con la mia città in anni in cui mi sembravo un ammasso di detriti sparsi qui e là, perché stavo crescendo. Mi rivedo ancora nei foyer qualche anno fa, chiedendomi perché avessi penna e agenda in mano, perché lo facessi, a che titolo avrei incominciato questo confronto con le arti dal vivo. Se penso allo scrivere critica teatrale, io penso all’incertezza, a una non-identità che mi sentivo addosso e cercavo di lenire quando mi accingevo a scrivere. Scrivere come smussare una non-identità, al fine di capirci qualcosa. Se possibile. Si, ma cosa?  Riprendo concetti banali e semplici: il teatro è relazione con il fuori di te, ma anche con il dentro di te.

RF: Se devo pensare al perchè ho avviato il mio percorso di critico del linguaggio, devo dire che stranamente anche io trovo nella memoria una discontinuità rispetto al mio vissuto. Mi ero trasferito da Roma a Bergamo, il mio tessuto di relazioni di prossimità era cambiato all’improvviso. La comunità dell’arte, pur sfilacciata, pur non essendo famiglia, pur fatta di mille parrocchiette quante sono le chiese a Napoli, era una casa che restava aperta sempre: anche se mi spostavo, mi dava un luogo in cui praticare, restava accessibile. In questa prospettiva la comunità assume una connotazione quasi religiosa: la partecipazione al rito, l’essere parte di una collettività transurbana. Una discontinuità di luoghi e di vita quindi, anche nel mio caso. Strano andarsi a cercare in un luogo che non ha a che fare con il reale. In teoria. E strano chiedersi oggi, dopo quasi quindici anni dall’inizio di quel percorso e oltre cinquemila spettacoli visti, se, dopo questi tre mesi, non sia cambiato qualcosa in me, se anche io non abbia sentito dentro un clic. O un crac.

Disegno di Renzo Francabandera

EF: Ora, mentre tutto il comparto teatrale cerca soluzioni plausibili per mettersi in sicurezza, è oltremodo giusto (ri)pensare al fare critica. Da anni appare chiaro quanto la critica teatrale abbia già varcato la deriva, e in un tempo in cui sembra crescere l’amara consapevolezza che il teatro sia una sorta di otium per pochi, profondamente trascurabile rispetto ad altri settori, è facile che il munirsi di carta e penna e occupare un posto in platea si svuoti totalmente di senso. Talvolta, per sfuggire al timore che scrivere di teatro mi si palesi come un atto autoreferenziale, ho cercato di trovare una buona ragione nel fatto di lasciare testimonianza di un evento unico e irripetibile (anche se fra migliaia di repliche, una serata può essere sempre diversa dall’altra) e condividerne l’esperienza attraverso un po’ di parole. Ma ora? Dopo il baratro della pandemia in cui ci siamo ritrovati, ho bisogno di cercare altre ragioni. E francamente ci ho pensato per giorni ma non ho risposte certe. Né ho la capacità di trarre riflessioni decisive dal periodo che abbiamo vissuto. Sicuramente nessuno vorrebbe mai scrivere di uno spettacolo ritenendolo una rara forma di otium per un pubblico assai circoscritto. È una minaccia obiettivamente opprimente. Bisognerebbe riscrivere un manifesto comune, un brainstorming di sguardi disparati per poter raccogliere una sfida ancora vitale.

RF: Un brainstorming di sguardi disperati, vorrai dire! La pandemia ha davvero acceso un faro complesso sulla comunità, sui vizi privati, le pubbliche virtù e le lagnanze, diventate da private a pubbliche, in un piagnisteo che mi e ci ha molto allontanati dalle persone, oltre che dai luoghi. In un consesso pubblico online, l’unico cui ho partecipato, ho detto che in questo tempo molti degli attori, dei mattatori della scena, avevano perso l’aura sacrale. Avevamo sentito la puzza dei loro piedi, erano di colpo diventati troppo umani, fragili, più dei personaggi che interpretano. Troppi Re Lear abbandonati a se stessi, rimasti senza casa e taluni prossimi alla crisi di nervi, come se fosse solo loro il dramma di questo tempo. Quelli che più e meglio hanno resistito sono quelli che evidentemente avevano darwinianamente ragione d’essere, perchè legati a sistemi di relazione di comunità: sono quelli che hanno fatto pratica nei territori, creato aggregazioni, luoghi, connessioni, erano e sono parte di un circuito umano di prossimità, prima che di un circuito di livello provinciale, regionale o nazionale che sia. Più il cerchio si allargava e più l’intensità del legame si annacquava. E la crisi di identità si ampliava.

EF: È indubbio che il teatro è quel luogo per eccellenza in cui c’è la relazione. Relazioni da ritrovare e ricucire, mica tanto scontato! Ora che abbiamo compreso che le abitudini o i procedimenti automatici del quotidiano possono essere disattivati, personalmente mi auguro di tornare a teatro con una certa disabitudine, con un disorientamento tale da chiedermi per giorni il perché. Mi auguro di non pormi domande (o peggio darmi risposte) sull’utilità del teatro. Non è possibile presumere altro che lo scabro concetto secondo il quale il teatro è  la capacità umana di pensarsi altro da sé, di guardarsi fuori e dentro in simultanea.

RF: Qui stiamo aprendo a una riflessione, seppur in modo veloce in questa sede, su cosa significhi o potrà significare fare critica da ora in poi (la continueremo nei prossimi giorni con altre interviste e contributi).
Per molti artisti c’è fame di tornare al normale; io non so se lo vorrei. Come rivista – per primi in Italia, mi pare di poter dire – abbiamo scelto, appena decretato il lockdown, di ampliare il nostro sguardo oltre la bottega teatrale, cercando altre menti con cui confrontarci: architetti, poeti, filosofi, politici, scrittori, linguisti a cui chiedere idee, contributi. Mi è sembrato di prendere di colpo aria, e più questo mondo “altro” mi/ci entrava in casa, più la domanda sull’ “utilità” del teatro si faceva forte.
Sono convinto che l’arte debba essere inutile, ovvero non sottostare a principi utilitaristici di questo o quello, o anche solo di un pensiero, ma essere espressione di una libera istanza ideale; così come pure sono convinto dell’utilità della pratica del linguaggio scenico per ogni fascia di età, a partire dai bambini. Ma, per altro verso, sicuramente si apre un fronte di pensiero sull’utilità della mia figura di sguardo critico, in rapporto alle istituzioni teatrali e alle loro pratiche. Ai cartelloni. Ai tanti spettacoli messi in piedi per riempirli.
L’arte deve essere inutile, ok. Ma il dramma è che molti spettacoli già lo erano, perchè dovevano tenere in piedi un circuito inquinante fatto di date, repliche, numeri, scambi, per i finanziamenti ministeriali ecc.
E io, come critico del linguaggio, sento, a maggior ragione ora, il dovere non solo di dirlo (come in fondo penso per etica di aver sempre fatto) ma anche di indirizzare ancor più nel futuro il mio sguardo verso la pratica concreta, schivando la immane fuffa reggi-sistema che vergognosamente ogni anno viene prodotta. Il tantissimo superfluo, il meccanismo dell’arte non come linguaggio ma come professione, il fake-teatro. Ma poi chi lo decide? Ci si rimette allo sguardo dello spettatore, il cui gusto andrebbe alimentato con discussioni, incontri.
Ora più che mai, sento che questo lato più produttivo e dal mio punto di vista inutile dell’industria teatrale non mi interessa, anzi in molti casi mi ha tolto tanto tempo di vita. E non lo dico per spregio verso chi fa spettacolo per lavoro, ma perché non voglio “dover” andare a teatro per restituire a questo o quello spettacolo una paginetta da aggiungere alla cartella stampa, bensì perché quell’esperienza amplifichi lo spazio del mio spirito, nutrendosi di quello, e di tanto altro, ritornando alla sacralità delle relazioni, non al dovere.
Tante volte molta parte della comunità artistica usa in modo “volgare” il termine critica, mischiando e mettendo assieme pensieri, persone e punti di vista diversi, nell’unico mazzo de “i critici”. Ma i critici chi?
È come dire: gli scrittori sono tutti… o i registi sono…
Ci sono molte persone che si dedicano a questo esercizio, da più o meno tempo, con le quali non condivido nessun punto di vista. Che non mi rappresentano in alcun modo. Con le quali non ho nessuna pratica culturale condivisa né orizzonte di pensiero in comune. Non mi sento di essere dentro la comunità de “i critici”. Sento di praticare un esercizio di pensiero.

Disegno di Renzo Francabandera

EF: Infine, a livello più concreto si potranno trovare parole nuove? Vorrei raccontare e non recensire; la recensione è una forma di un tempo passato. Vorrei raccontare. Raccontare la città attraversando le sue platee, ristabilire con essa un contatto umano e profondo – tutto da ricostruire dopo i mesi di quarantena – scorgendo nell’alternarsi di compagnie, di pensieri, nel proliferarsi di spazi ben lontani da quelli soliti, istituzionali,  la circolazione di idee e persone che – anche per una sola sera – restituiscono un senso sempre differente al paesaggio urbano che mi è di fronte. Ecco, vorrei non dimenticarmi di questo. Raccontare di questo e di spettacoli imperfetti, claudicanti, sui quali ci sarà ancora tanto da lavorare, sperando sempre di assistere non a un risultato ma a un processo per il quale lo sguardo in platea non diventi un banale destinatario ma qualcuno con cui si fa un pezzo di strada insieme…

RF: La critica non è morta in quanto tale, e come esercizio di pensiero non morirà mai, perchè è una delle forme attraverso le quali la mente si proietta nel suo rapporto con la realtà e i linguaggi che la attraversano. Tuttavia certamente la recensione è moribonda, distrutta dal proliferare di punti di emittenza incontrollabili e incontrollati, il cui moltiplicarsi è spesso incentivato, oltre che dal mezzo internet, dalla stessa funzione artistica, proprio al fine di gonfiare quella famosa cartella stampa di cui sopra.
Ora che la carta stampata è in crisi di fondi, e che la dimensione online, visto lo scarsissimo budget del settore, annaspa in un’area di appassionato volontariato senza danari e istituzionalità, pochissimi fanno gavetta e formazione, tranne poche riviste attente a questo aspetto peculiare; purtroppo molte altre, anche online, spinte dalla fame di clic, non controllano gli articoli e permettono a moltissimi di pubblicare qualsiasi cosa senza riletture o supervisioni, senza confronto con una funzione di verifica dei contenuti. Sostenere la passione in modo generalizzato è cosa giusta, ma le recensioni sono in crisi anche per l’avvento di una digitalità senza rigore. Lo sguardo non è un atto innocente, come dice Castellucci, e ha bisogno di una alfabetizzazione per decifrare il codice della scena.
Di questo occorre che molti facciano mea culpa, capendo anche quanto alcuni artisti o compagnie abbiano incentivato questa cosa, ad esempio condividendo sui social recensioncine fasulle, scritture scopiazzate dai comunicati stampa, testi che definire recensioni è immorale, e che in alcuni casi anche definire testi è troppo.
Occorrerebbe un bollino di fake-critica, oltre che di fake-teatro.  Ma poi chi lo dà questo bollino? Ci si rimette allo sguardo del lettore (i pochi lettori delle faccende teatrali, i famosi “noi e noi”). Sperando sappiano distinguere. Ma sono sempre meno, perchè è un linguaggio che sta mutando ed è in un momento di grande trasformazione, come tutta la pratica di comunicazione nel nostro tempo, modificata in modo drammatico negli ultimi trent’anni dall’avvento del computer.
Il computer di massa è un salto tecnologico non banale: si postula che la macchina possa ibridarsi con il genere umano nel giro dei prossimi trent’anni. Figuriamoci se la macchina non modificherà progressivamente uno dei tantissimi linguaggi praticati dall’uomo come il teatro, trasformandone sistemi, pratiche e relazioni. E già lo fa.
Occorre, anche da questo punto di vista farci i conti, piaccia o non piaccia, confrontandosi anche moltissimo con le giovani generazioni, le comunità, i loro bisogni. Come persona appassionata di critica del linguaggio dell’arte dal vivo, sento di dover cercare i modi e i luoghi in cui quest’arte vive, in cui resiste per necessità non dell’artista, ma della comunità in cui l’artista incontra il pubblico; non, quindi, i modi e i luoghi con cui cerca di sopravvivere non avendone la forza, ma i modi e i luoghi in cui il linguaggio teatrale torna “utile” nell’unica accezione per me possibile con riferimento all’arte, ovvero come lingua praticata nel tempo presente per rappresentare istanze, comprendere dinamiche, sviluppare relazioni.
E la pandemia, su questo tema, forse qualcosa potrebbe averla detta. Che piaccia o no. Lo capiremo nei prossimi mesi, vedendo se davvero tutto tornerà come prima o no. Facciamoci i conti.