ESTER FORMATO | L’arte partecipata non è la sorellina povera del teatro di professione. Durante l’intervista a Gianluigi Gherzi fanno capolino queste parole che mi aprono un mondo. Probabilmente, perché riparta con vitalità e vigore, il teatro ha bisogno di continui innesti e di osmosi, di guardarsi non più come un circuito; dovrebbe pensare a come superare categorie figlie del secolo scorso, e varcare mari ancora sconosciuti in cui un artista transiti da un’esperienza all’altra senza vecchie etichette; e lo spettatore diventi un’identità mobile, non più solo un transitorio ospite di una poltrona. Questi sono stati i peniseri che mi son venuti in mente, dopo aver riagganciato la chiamata. Ma ripartiamo dall’inizio.

Parliamo con Gianluigi di un progetto nato per una piattaforma web, dal titolo Finestre degli incontri e da questa idea ci interroghiamo su prospettive, idee e desideri che accompagnano la riapertura dei teatri, muovendoci dall’ottica dell’arte partecipata. Da tale prospettiva è possibile comprendere quanto sia favorevole integrare i processi della stessa arte partecipata con quelli di un teatro che consideriamo di professione. Soprattutto di questi tempi scopriamo che le pratiche dell’una possono apportare soluzioni opportune all’altro, riavvicinandolo in questo modo alla comunità e quindi al territorio.

Teatro degli incontri è un progetto di arte partecipata nella città di Milano. Siete attivi da più di dieci anni. Come si è trasformata la relazione col territorio urbano in tutto questo tempo?

Teatro degli incontri nasce perché volevamo uno spazio che consentiva alle persone, di teatro e non, di incontrarsi. Parlo anche di cittadini, di utenti di certe comunità (clochard, centri giovanili, scuole per migranti) che entrano in contatto con noi operatori. Volevamo creare un punto di incontro fra teatro sul palco e teatro all’aperto, fra il linguaggio della recitazione e linguaggio performativo, come quello delle installazioni, o legato alla costruzione di oggetti. In sintesi, desideravamo far incontrare chi normalmente non si incontra, con particolare attenzione alla dimensione migrante. Nel corso degli anni devo riconoscere che questo progetto ha continuato a  muoversi su grandi temi che hanno convogliato stranieri, cittadini, attori di professione e non, e un risultato è stato quello di venire a contatto con persone portatrici di ogni differenza.

Durante il periodo di quarantena avete dato vita a Finestre degli incontri. Un periodo di fermo forzato è diventato un tempo denso di scrittura creativa e di montaggio di piccoli video. Quali valori aggiunti sono emersi  da quest’esperienza?

A causa dell’emergenza sanitaria ci si sentiva  bloccati e non certo nella maniera giusta. Per questo Finestre degli incontri nasce dalla richiesta di tanti con cui  lavoriamo, di fare qualcosa interrogandoci su quanto ci stava accadendo. La prima cosa che ci è venuta in mente è stata quella di osservare  come stava cambiando la nostra casa. In questo tempo infatti, la casa è stata tana, ufficio, tempio, sala giochi. Poi ci siamo interrogati su cosa vuol dire coabitare in un periodo del genere, e quindi abbiamo chiesto a ciascuno di scrivere un testo per raccontare la propria esperienza. Ognuna di queste è stata poi trasformata in video la cui grammatica aveva regole precise: non fare montaggi, non usare luci, non introdurre colonne sonore, e soprattutto fare un’unica ripresa con il solo smartphone. Ci affascinava l’idea di riprendere alcuni tratti del così detto cinema povero la cui cifra si adattava a quello che vivevamo.
In seguito la nostra attenzione è ricaduta sull’altro, cioè sul vicino di casa ad esempio, o su qualcuno che era lontano e con il quale si comunicava telefonicamente. Da qui sono nati dei racconti orali, non scritti, ma semplicemente còlti così com’erano attraverso degli audio, e confluiti in una seconda sezione della piattaforma che è ancora in progress…

Una piattaforma che raccoglie una molteplicità di linguaggi…

Si, infatti oltre alla sezione testi, video e audio che citavamo prima, stiamo  lavorando a una quarta sezione, quella sugli oggetti visivi; un’attività fatta sempre nelle case ma legata alle foto, alla costruzione di oggetti  che entro fine giugno daranno vita a questa nuova parte. Nello stesso tempo abbiamo riservato un’altra sezione per i contributi esterni. È quindi una piattaforma aperta, non conclusa e che ci consente di sperimentare la fruibilità del pensiero artistico esteso a tutti. Presumibilmente da settembre contiamo di trasformare questa piattaforma digitale in un’azione performativa, agìta fisicamente in diversi luoghi della città.

La pandemia da Covid-19 porterà probabilmente a riflettere sugli spazi dello spettacolo dal vivo, a soluzioni altre che garantiscano la sicurezza di tutti. C’è secondo te la possibilità che da queste esigenze la pratica del teatro – anche in forma  di arte partecipata – possa acquisire ancor più rilievo nei nostri contesti urbani?

È chiaro che non si tornerà al teatro di prima così velocemente; sarà necessario ripensare al proprio pensiero e al senso della pratica artistica oggi. Dovremo elaborare una serie di traumi non solo legati all’emergenza sanitaria, ma penso a quella sociale ad esempio, di cui siamo soltanto all’inizio. Ma tutti questi traumi possono essere elaborati collettivamente solo con forme d’arte che coinvolgono un insieme di persone, come accadeva nell’antica Atene con i tragediografi, e questo lo si fa nella polis, nei luoghi di appartenenza. Sicuramente nel farlo saremo sottoposti a regole di sicurezza, ma questo potrebbe stimolarci a ripensare al rapporto con lo spettatore. Stiamo pensando di trasformare i contenuti della nostra piattaforma in una performance che ricorda una mostra d’arte, ad esempio. Questo per dire che quanto è accaduto ci deve spingere a soluzioni di fruizione assolutamente differenti, sfide per nulla nuove a pratiche come l’arte partecipata. Non dimentichiamo che quest’ultima nasce proprio come una forma di ricerca e di produzione del pensiero artistico contemporaneo che prova a realizzare spettacoli estremamente interessanti e artisticamente  validi, attraverso modi alternativi a quelli tradizionali.

Canto Clandestino ì, uno spettacolo di Teatro degli Incontri (ph. Diego Cantore)

Quali luoghi vorrebbe raggiungere un progetto di arte partecipata come il vostro?

Speriamo almeno a breve termine di raggiungere piazze, luoghi all’aperto e comunque non teatrali della città. D’altro canto credo che anche gli edifici teatrali, quelli canonici, non vadano lasciati. Piuttosto auspico a un ripensamento del loro uso che agevoli l’incontro, il costituirsi di una comunità.

Come hai vissuto tu, da persona e da lavoratore, gli eventi  di questi mesi? Come  immagini i prossimi?

Certamente ci siamo resi conto che in questi mesi il teatro è stato un  po’ il grande assente. Personalmente sono colpito da come i lavoratori dello spettacolo non siano stati interrogati pienamente per le loro esigenze ed il rischio maggiore, dopo quanto è successo, è secondo me perdere di vista la complessità del nostro sistema teatrale. Pur nella difesa di pratiche alternative e delle piccole realtà, dobbiamo stare molto attenti a non desertificare i grandi teatri. Questo lo dico perché la nostra realtà nazionale è  un arcipelago in cui piccole e grandi isole coesistono e come tali devono essere interconnesse. Cosa succederà, ad esempio, a pratiche come la nostra che nel DNA ha la relazione, il dialogo con un territorio specifico? Tali esperienze vanno riconosciute nella loro specificità ma necessariamente anche entro un sistema articolatissimo e globale. Con questo vorrei dire che non c’è bisogno che nella difesa del più debole ci si contrapponga ai grandi; è ora di guardare invece alla necessità di interconnettere realtà differenti per poter avere un sistema finalmente all’avanguardia.
In questo rientra anche il discorso dell’arte partecipata; è necessario un’osmosi fra le due realtà. Non c’è nessun elemento di contraddizione fra le varie dimensioni della pratica teatrale. Io credo che ciascun artista debba accogliere esperienze trasversali e dialoganti, ampliare un orizzonte vasto in cui ogni esperienza non può che arricchire da molteplici punti di vista.

Finestre degli incontri è un progetto digitale di Teatro degli incontri https://www.finestredeglincontri.it/