LAURA NOVELLI | Una distesa di fiori dai colori tenui e di lucine fioche. Un tappeto tombale. Un cimitero vuoto e immobile che, a sua volta, immobilizza la visione e ci inchioda per diversi minuti al silenzio eloquente del suo stare lì, granitico, caparbio, quasi che lo spazio stesso fosse in attesa di qualcosa o qualcuno.
Inizia con questa visione tragica e fortemente materica La Plaza, performance del collettivo catalano El Conde de Torrefiel  (fondato da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert nel 2010 a Barcellona) che, a più di un anno dalle repliche milanesi viste alla Trienale d’Arte del 2019, è stata riproposta al Teatro Argentina come titolo di chiusura della rassegna Short Theatre (progetto in co-realizzazione con il Teatro di Roma).


Quel tappeto di fiori richiama alla memoria le montagne di petali rossi portati in scena dalla grande Pina Bausch ne Il lavavetri (1997) e i garofani rosati del suo precedente, straordinario, Nelken (1982); ma, soprattutto, rimandano immediatamente alla matrice stessa da cui nasce il lavoro: i fiori disseminati lungo le strade delle città europee ferite dagli attacchi terroristici dell’Isis. La Plaza trova radice nel dramma di quelle stragi e, oggi, si carica dei nuovi scenari funebri legati alla pandemia da Coronavirus.
È un’inquietudine insidiosa quella che promana dal suo incipit. Un fastidio lento, angosciante. Un disagio che pare infinito. Tanto più che, abolita ogni forma dialogica o monologante, il testo del lavoro (scritto dallo stesso Gisbert) scorre in videoproiezione sul fondo del palcoscenico e chiama in causa direttamente il pubblico, avvisandolo del fatto che si sta assistendo a uno spettacolo che si
 replica contemporaneamente in altri luoghi del mondo e che va in scena 365 giorni l’anno. Forse perché, semplicemente, si muore sempre e ovunque? Il teatro diventa perciò antiteatro: nessun attore reciterà alcunché; nessun mondo immaginario; nessuna finzione. Un post-teatro dove ogni singolo astante è chiamato a compiere un viaggio dentro di sé, a pensare in proprio, a sovrapporre ciò che vede lì a ciò che ha visto “fuori”; ad annoiarsi persino.
Il silenzio lungo del primo quadro si impone dunque come un tempo interiore, dilatato, vuoto, quasi il duo spagnolo volesse evocare le estenuanti – ma dense – attese del migliore repertorio di Bob Wilson.

Foto Els De Nil

Spariti i fiori, la pièce cambia poi abito. La scena si anima via via di oggetti e di personaggi anonimi con il volto coperto da foulard e vistose parrucche (donne di ogni età, uomini, carrozzine con bambini, carrelli della spesa, soldati armati): siamo noi, sono loro, siete voi. La vita cittadina di una qualsiasi piazza – quanta sensata inquietudine in quei visi magrittiani! – si fa specchio della società, mentre la platea stessa ne riflette il paesaggio umano.
Senza alcuna cesura tra performer e spettatori, il gioco metateatrale azzera definitivamente ogni possibilità di rappresentazione. Ciò che vediamo è piuttosto una processione del contemporaneo, un quadro vivente diviso tra illusione e realtà. Tanto basti per dirci che l’individuo annaspa dentro un perimetro collettivo sempre più vacillante, abbrutito, fragile, luttuoso, violento. Tanto basti per sdoganare la compattezza corale dell’essere cittadini e uomini per determinare, al suo posto, una trincea di inquietudini personali nella quale – complici le tante trasformazioni globali del terzo millennio – ognuno percepisce se stesso, la realtà, la verità in modo diverso dagli altri.  

Ognuno di quei personaggi cittadini rappresenta, in fondo, una sorta di “personificazione” medievale che annuncia, con il solo fatto di muoversi in scena per lo più di “spalle” (e ci piace ricordare a tal riguardo un illuminante saggio di George Banu, L’Homme de dos. Peinture, théâtre, edito in Francia nel 2001), l’impossibilità di costruire un mondo armonico, una società pacifica, un futuro roseo.

Foto Els De Nil

Sono i venti funesti di questa era così dis-umana a spirare tra i rivoli di un lavoro davvero apprezzabile e arguto, che sa tessere allo stesso tempo un discorso contenutistico sulla disintegrazione della storia umana (a vantaggio dell’unicità distinta dell’Io) e un discorso stilistico sulla frantumazione del teatro tradizionale. Temi e forme d’altronde già affrontati in altre creazione del collettivo quali, ad esempio, quel Guerrilla presentato proprio a Short nel 2017 e il più recente Se respira en el jardín como en un bosque / Si respira in giardino come nel bosco (in programma a luglio a Santarcangelo). In quest’ultimo l’azione veniva creata direttamente dallo spettatore, chiamato a essere sia artista sia fruitore della performance, e quel gioco di rifrazioni tra chi agisce e chi guarda è ripreso anche nell’ultima parte de La Plaza, laddove cioè il corpo nudo della pornostar Linda Lovelace, steso su un lettino da obitorio, viene filmato da una troupe e, malgrado sia ormai un cadavere da oltre quindici anni, ancora suscita l’istinto erotico dell’osservatore.

È un luttuoso mondo/teatro senza vita ciò che in definitiva ci consegnano qui gli artisti catalani: l’ombra nera che avvolge il domani dell’umanità si tradurrà teatralmente – scrive l’autore – in una «rappresentazione del nulla, senza alcuna presenza umana sul palco. Nessuno vorrà più ascoltare né storie né idee. Nessuno vorrà più vedere nessuno».
Volti velati. Corpi che si muovono di spalle. Silenziosi affondi dentro i nostri sé smarriti.

 


LA PLAZA

ideazione e composizione El Conde de Torrefiel in collaborazione con i performer
regia Tanya Beyeler e Pablo Gisbert
testo Pablo Gisbert
cast Gloria March Chulvi, Albert Pérez Hidalgo, Mónica Almirall Batet, Nicolas Carbajal, Amaranta Velarde, David Mallols + performer del luogo
stage Design El Conde de Torrefiel e Blanca Añón
costumi Blanca Añón and Performers
manager tecnico Isaac Torres
luci Ana Rovira
suono Rebecca Praga
tecnici del suono Adolfo Fernández García e Uriel Ireland
tecnici in tour Roberto Baldinelli e Javi Castrillón

produzione Kunstenfestivaldesarts (Bruxelles), El Conde de Torrefiel
co-produzione Alkantara and Maria Matos Teatro (Lisbona), Festival d’Automne e Centre Pompidou (Parigi), Festival GREC (Barcellona), Festival de Marseille, HAU Hebbel am Ufer (Berlino), Mousonturm Frankfurt am Main, FOG Triennale Milano Performing Arts, Vooruit (Gent), Wiener Festwochen (Vienna), Black Box Theater (Oslo), Zurcher Thetaerspektakel (Zurigo)
con il sostegno di Zinnema (Bruxelles), Festival SÂLMON, Mercat de les Flors and El Graner – Centre de Creació (Barcellona), Fabra i Coats – centre de creació (Barcellona)
promozione e tour management Caravan Production

traduzioni del testo Marion Cousin (francese), Martin Orti (tedesco), Lisa Thunnissen (olandese), Teresa Fernandes (portoghese), Christiana Galanopoulou (greco), Nika Blazer (danese)

Foto di copertina Luisa Gutiérrez

Short Theatre, XV edizione
Teatro Argentina, Roma
12 e 13 settembre 2020