FABIO MASSIMO FRANCESCHELLI | Tre gigantesche strutture cilindriche, alte, a occhio e croce, 50 o 60 metri, disposte su un’ampia pianura di campagna a breve distanza l’una dall’altra, come i tre vertici di un immaginario triangolo: è questo il frame più rappresentativo di Tales from the Loop, serie sci-fi USA che racconta della problematica convivenza, nei primi anni ’80, tra gli abitanti di una cittadina dell’Ohio e una misteriosa struttura sotterranea nota come Loop, probabilmente un enorme acceleratore di particelle.

Ognuno di questi cilindri ha sulla sommità un rilievo luminoso a forma di V dalle ignote funzioni, la stilizzazione di una bocca che dà loro una vaga sembianza di creature antropomorfe dall’espressione enigmatica. Se a un primo sguardo possono sembrare enormi silos in cemento, una maggiore attenzione fa svanire possibili riferimenti industriali lasciando spazio alla contemplazione di un profilo non ben identificabile che irradia la piena appartenenza al mistero. E il mistero è muto, il mistero è silenzio. La serie mostra spesso architetture dalle forme geometriche elementari (cilindri e sfere) e dimensioni imponenti. Il volume architettonico, in virtù della sua semplicità formale unita a misure eccezionali, in particolare verticali, nulla di chiaro ci dice sulla sua funzione; è evocativo, archetipico, ci riguarda nel profondo ma non riusciamo a metterlo a fuoco, resta perciò muto, crea intorno a sé una dimensione di laica sacralità dove si impone il silenzio, un silenzio malinconico, quello della solitudine. Il silenzio dell’architettura verticale è il silenzio della solitudine e la grande architettura è sempre il segno di una sconfitta umana, l’impossibilità di non sentirsi soli.

L’architettura non narra i luoghi ma li costruisce o, se vogliamo, li violenta. Prima di diventare territorio, se mai lo diverrà pienamente, l’opera architettonica è la violenza dell’innesto e il silenzio che segue il dolore per quella violenza, inutile violenza, infantile crudeltà che suscita una vaga tenerezza nello sguardo giudicante e un senso di colpa impalpabile nella coscienza dell’imputato. Infine alla grande architettura è richiesto di sfidare e vincere il tempo, fino a testimoniare, quando non ci saremo più, che ci siamo stati. La malinconia e la sconfitta sono i leganti idraulici che solidificano la forma architettonica.

Malinconia, solitudine, senso di sconfitta, colpa, tenerezza, ecco i sentimenti narrati da Tales from the Loop, evocati dalla muta verticalità, ossessivamente ricercati con gli strumenti della lentezza e del silenzio declinati in scarni dialoghi, in commenti musicali all’insegna del minimalismo e dell’iterazione, e poi la telecamera che indugia su dettagli apparentemente insignificanti, atti ripetuti, motivi visivi ricorrenti, echi e rispecchiamenti, tutto ciò che la cultura del videoclip taglierebbe qui è esaltata in direzione di un’estetica (e di una retorica) dei tempi morti.

Sul piano esistenziale la serie mostra l’umano come estraneo, in misura equidistante, alla natura quanto alla cultura. Quest’ultima è rappresentata da una tecnologia misteriosa, esoterica, e portata alle sue estreme conseguenze; le tre grandi strutture cilindriche ne sono la sineddoche visiva. La natura invece è presente con il bosco, spesso filmato dal basso verso l’alto a evidenziare la maestosità di faggi e querce. E poi c’è l’essere umano, che sovente cammina solitario, e l’immagine di questa sua raminga solitudine è anch’essa slanciata e cilindrica. La verticalità accomuna le tre dimensioni.
Ho parlato di umanità estranea in misura equidistante da natura e cultura ma questo non esaurisce la lettura delle loro relazioni: in verità la natura sembra del tutto indifferente alla presenza umana, non è interessata né infastidita dalle vicende degli umani; la cultura, che qui è tecnologia, invece è pericolosa, anzi incontrollabile. Non è più lo strumento di cui si è dotato l’uomo per fronteggiare una natura minacciosa e imprevedibile, anzi, sembra aver fatto propri tali caratteri nefasti: alle tradizionali visioni distopiche centrate su una robotica più o meno integrata, o integrabile, agli umani, Tales from the Loop unisce l’idea di una tecnologia dai poteri sfuggenti, fuori controllo, una potenza liberata da demiurghi pasticcioni che può sconvolgere le vite di ignari cittadini i quali, inermi, subiscono improvvisi salti in dimensioni parallele, cinici scambi d’identità o crudeli paradossi temporali. Non c’è allegria nel rapporto tra umani e tecnologia, né serenità; la tecnologia spaventa e intristisce. Lo sguardo di Loretta Willard – la protagonista femminile, direttrice del misterioso loop, il grande acceleratore di particelle sotterraneo – è di triste consapevolezza.

Il visuale della serie si propone come il piano semiotico più loquace e interessante. Si basa sulle illustrazioni di Simon Stålenhag, artista digitale svedese autore di immagini iperrealistiche che miscelano paesaggi della campagna svedese con visioni attinenti a un’originale fantascienza retrofuturista, dove la tecnologia, la robotica in particolare, assume tratti in curioso equilibrio tra il sensazionale, il decrepito, il buffo.
Nella rivisitazione seriale ideata da Nathaniel Halpern, l’immaginario svedese di Stålenhag si traspone nell’ambiente rurale dell’Ohio ma il risultato non può non richiamare alla mente le storiche ZATO, le città chiuse del blocco sovietico che nascevano intorno a specifici progetti produttivi a carattere scientifico-militare e dove gli abitanti ne erano, in varie modalità, la forza lavoro. Il grigiore della società sovietica, la lentezza melodica del narrato, l’ostentata solitudine dei personaggi alla vagabonda ricerca di un senso, la placida indifferenza della natura, una tecnologia invisibile e spaventosa, quella del loop, e un’altra ben visibile ma ironicamente buffa, quella dei grandi robot erranti nei boschi, e poi paradossi temporali, androidi mostruosi, braccia bioniche e universi paralleli… insomma, un’eterogeneità di elementi che spiazzano e seducono lo spettatore più smaliziato e fanno di Tales from the Loop una serie che profuma di raffinata creatività artigianale.

TALES FROM TEH LOOP

serie televisiva USA distribuita da Prime Video, anno 2020
ideata da Nathaniel Halpern
ispirata alle illustrazioni di Simon Stålenhag, raccolte nel volume Loop, Mondadori 2017
prima stagione, 8 episodi