RITA CIRRINCIONE | Può un romanzo a fumetti raccontare pienamente la ferocia di un’umanità dedita al malaffare, al crimine, al saccheggio sistematico del territorio, al mercimonio dei corpi, all’uso smodato di droga, al maltrattamento e all’abuso di minori? Può rappresentare una realtà in cui degrado, violenza e sopraffazione la fanno da padroni? Gianni Allegra ci prova, anzi ci riprova, con La vita bastarda, appena pubblicato da ComicOut di Laura Scarpa. 

Nel nuovo graphic novel l’autore palermitano torna a raccontare le gesta di Minkiaman – alias Totuccio – supereroe sui generis con cappellino da baseball, maschera, mantellina e pattini a rotelle che abbiamo già visto in azione ne La guerra di Minkiaman, prima tappa della saga. E continua a raccontare le vicende di violenza, droga e sesso in una Balarm Town (antico nome arabo di Palermo) cupa e feroce dominata da una mafia farsesca e spietata in lotta per il potere. Lo fa con una crudezza di immagini e di linguaggio e con uno stile così allucinato da sembrare eccessivo.

Ma quando la realtà è quella di una città che ha assistito al sacco selvaggio di un patrimonio architettonico unico al mondo; quella di un popolo che per decenni ha visto i corpi crivellati dalla lupara insanguinare androni, cortili, marciapiedi, automobili; quella di una terra che ha assistito all’esplosione di centinaia di chilogrammi di tritolo e visto saltare in aria autostrade, palazzi e pezzi dello Stato, è difficile che la rappresentazione della realtà superi per orrore e oscenità la realtà stessa.

Ne La guerra di Minkiaman Totuccio è un bambino abbandonato nella campagna alla periferia di Balarm Town – una Palermo trasfigurata ma riconoscibile – e accudito da un vecchio che lo alleva insieme ai suoi tre cani. Pur nell’abbandono e nella trascuratezza e con una istruzione tardiva e disordinata ricevuta da un “mancato maestro”, Totuccio sviluppa un talento e una sensibilità speciali. Da adolescente, si sposta in città dove è in corso una guerra tra bande mafiose per il controllo del territorio e dove viene iniziato al sesso e alla durezza della vita. Imparerà a farsi rispettare trasformandosi in Minkiaman.

Ne La vita bastarda, da quel bambino timido e trascurato che era, Totuccio diventa un ragazzo che vuole capire la propria storia personale e familiare. Dovrà fare i conti con la realtà drammatica di una famiglia “tossica” dove convivono promiscuità, abuso sessuale e violenza. Rivestirà ancora i panni di Minkiaman ma questa volta lo farà di malavoglia. Ha scoperto di avere in sé altre risorse che lo salveranno: una forza interiore innocente e tenace e l’amore per la poesia.

Pittore, fumettista, autore di graphic novel, storico vignettista di Repubblica Palermo dove, come Matita Allegra, dal 1997 al 2017 ha pubblicato le sue vignette di satira politica, Gianni Allegra inizia la sua attività collaborando con la rivista I Siciliani diretta da Giuseppe Fava e successivamente con il quotidiano palermitano L’Ora. Seguiranno collaborazioni con Comix, Linus, L’Unità, Avvenimenti, Cuore, Tango e Smemoranda. Ha vinto il Premio Zac per la satira nel 1999. Ha disegnato Il Giocatore, scritto da Roberta Torre e Diario della pioggia, su testi di Marcello Benfante.

Gianni Allegra

Il segno grafico carico e deciso, la scelta del bianco e nero (molto nero, poco bianco), lo stile espressionista, i volti mostruosi e grotteschi come i gargoyles delle cattedrali gotiche che affollano certe scene di violenza: Gianni Allegra, possiamo definire “La vita bastarda” un noir gotico?

Sì, “La Vita bastarda” è un noir gotico. Le creature mostruose che popolano gli incubi e gli insight psicotici del protagonista sono i suoi demoni, le sue terribili paure, il suo panico quotidiano. Totuccio è schiacciato dai sensi di colpa la cui rappresentazione non poteva che essere quella di creature terribili e deformi. Qui e lì emerge anche qualche eco dei mostri di Villa Palagonia (villa barocca di Bagheria famosa per la sequela di statue mostruose e grottesche che sormontano le mura di cinta – n.d.r.). In questo romanzo Totuccio è ormai cresciuto, non è più quel ragazzino dal talento smodato che doveva salvare la pelle per sopravvivere in un mondo non certo a sua misura: è un giovane adulto sopraffatto dai sensi di colpa, dai tormenti e dalle ansie legate a un passato in cui fu pure carnefice e assassino. Un noir gotico, certo, ma anche una fiaba nerissima. Per quel che attiene al segno deciso e nero, non poteva che essere questa la scelta: un espressionismo carico, emotivo, nervoso e sporco. D’altra parte, anche nella pittura l’espressionismo con influenze pop è ciò che prediligo.

Da Dr. Jekyll/Mr. Hyde a Dorian Gray e il suo ritratto; da Superman/Clark Kent ad altri supereroi e i loro alter ego, nel campo letterario come in quello del fumetto, l’espediente narrativo del doppio è chiamato a svolgere una funzione che può essere di tipo risolutivo, trasgressivo, liberatorio. Qual è nel caso di Totuccio/Minkiaman?

È l’ambiguità non risolta, il dubbio. La scelta timorosa e titubante. La paura di sprofondare ancora in un abisso di efferatezze non più sostenibili. La ricerca di sé e l’angoscia di un vissuto da dimenticare e che invece riaffiora. E se non è un doppio con i caratteri risolutori e liberatori, possiede i crismi della trasgressione. Difatti ne La Vita bastarda inizialmente Totuccio si rifiuta di tornare a essere il supereroe stravagante e grottesco della storia precedente ma per contingenze stringenti, suo malgrado, rivestirà ancora i panni prosaici di Minkiaman. È il doppio del tormento, del ripensamento, da cui non può prescindere. Forse un Mr Hyde lucido, consapevole, non una creatura mostruosa da laboratorio, per quanto supportata da un uso bizzarro di pillole blu.

Per temi, linguaggio, estetica, La vita bastarda è fortemente connotata in senso fallocentrico: personaggi maschili e femminili sembrano il prodotto di stereotipi sessisti creati da un immaginario decisamente maschilista. In tempi di gender fluidity o di identità di genere non binaria come si colloca la tua scelta?

“La vita bastarda”, come “La Guerra di Minkiaman”, è un romanzo dal mood ancestrale e selvaggio dalla forte impronta patriarcale, dunque sicuramente fallocentrica. È a misura di un maschio il cui fallo è appendice del proprio io, un maschio che schiaccia e sottomette la donna (qui è il caso di dire “femmina”) in quanto predatore e detentore di un potere assoluto, pensato più con i genitali che con la mente. In realtà la donna-femmina ha la stessa idea di potere del maschio, adopera lo stesso linguaggio e ne rappresenta in definitiva l’immagine speculare. Vedremo, infatti, donne matriarcali che usano il proprio corpo per esercitare il potere. Un potere uterocentrico? La cosa che balza agli occhi è che sia i maschi che le femmine provano piacere più nel comandare che nel fare sesso, secondo il precetto: Megghiu cumannari ca futtiri! Direi che patriarcato e matriarcato convergono e si sovrappongono in un delittuoso quanto insopportabile unicum. È un contesto distopico, senza tempo, che per comodità di lettura possiamo collocare alla fine degli anni cinquanta. Totuccio, anima sensibile e poetica, sarà l’eccezione che avvalora le regole bestiali che fanno di Balarm Town un pauroso girone infernale. A me interessava soprattutto raccontare il mistero del talento: come possa restare vivo in una creatura fragile e indifesa e in un contesto ostile e disumano.

Parliamo del linguaggio usato nel girone Balarm Town: è un linguaggio poco articolato, diretto e brutale, che si esprime per assunti; è un italiano impoverito e grezzo, quello che faceva parlare Tullio De Mauro di catastrofe culturale e di emergenza sociale e politica; è un siciliano residuale e snaturato misto a un anglo-americano da mafia movie. “Un populu diventa poviru e servu/ quannu c’arrubbanu a lingua/ addudata di patri:/ è persu pi sempri” come ammoniva Ignazio Buttitta?

Il linguaggio rifugge dalla stucchevolezza e dagli equivoci indotti da certe fiction ambientate in una Sicilia da cartolina consolatoria. Si parla un italiano basico, da basso ventre, quello che si concepiva in certi quartieri di periferia di una Palermo povera, devastata, mafiosa e ingrugnita degli anni cinquanta. È una lingua che sentenzia, che non prevede la dialettica, lo scambio dialogico; una lingua tutta epiteti, esclamazioni forti, minacce e ordini perentori, ma – per scelta mirata, per il desiderio di giungere a lettori di ogni latitudine – non è una lingua dialettale. Lo slang è riconducibile a un siciliano residuale ma non ha nulla di elegiaco, agreste e popolare. È il parlato dell’hard boiled, se possibile, più essiccato. Viceversa il linguaggio di Totuccio è complesso ed evoluto, ricco di sfumature liriche: il linguaggio che gli deriva dai suoi studi e dalle sue letture alte. Sarà proprio la lingua dei padri – da Dante a Leopardi – a salvare Totuccio.

Tra due visioni di Palermo, quella che potremmo definire neo-romantica, magica e folclorica, e la visione tragica di una città irredimibile, sulla scia di un approccio neo-illuministico riconducibile a Sciascia, dove si colloca la tua Palermo/Balarm Town? E, parafrasando ancora Sciascia che si riferiva alla Sicilia con i suoi problemi e con le sue contraddizioni, Palermo come metafora del mondo?

Per quanto riconducibile a Palermo, Balarm Town potrebbe essere la cattiva evoluzione di altre città e metropoli difficili del Sud e del Mezzogiorno, ma non solo.
Balarm Town è una città irredimibile. Più di quella odiata-amata dal più illuminista dei nostri scrittori. È una città senza legge dove ogni illegalità è lecita, ogni desiderio è il più sfrenato, ogni efferatezza è la più aberrante. Una città cornucopia che puoi depredare e saccheggiare senza una polizia che la protegga o una politica che la governi. Un cartello invidiato e agognato anche dai più incalliti narcos. Una città bordello di maschi predatori e femmine sirene e meretrici in un’unica enorme bolgia. Vi chiederete come il giovane Totuccio possa vivere in un simile contesto: la risposta è in grado di fornirla il suo alter ego, il prosaico e furioso Minkiaman.

La vita bastarda è la seconda tappa del ciclo di Minkiaman. L’happy end sembra escluderne una terza. È così?

La duologia è sufficiente a raccontare la vicenda umana di Totuccio-Minkiaman. La storia del piccolo abbandonato dai suoi genitori depravati, che si è fatto Minkiaman per sopravvivere e vendicarsi e poi, schiacciato dai sensi di colpa, come solo gli uomini possono, ha compiuto il suo destino.
Ma c’è un certo interesse sul versante cinematografico. E se mai dovessi essere coinvolto nella scrittura della sceneggiatura, beh, a quel punto un terzo capitolo potrebbe saltare fuori! Mai dire mai?