RENZO FRANCABANDERA | Chille de la balanza è una storica compagnia di teatro di ricerca nata a Napoli nel settembre 1973 ad opera di Claudio Ascoli.
L’attività della compagnia coincide largamente con quella del suo fondatore, erede di una tradizione secolare: insieme ai Maggio, agli Scarpetta e ai De Filippo, gli Ascoli formano un po’ l’ossatura storica del Teatro napoletano a cavallo tra l’800 e il ‘900. Il percorso iniziale della compagnia traccia un arco che la porta dall’iniziale e rigoroso recupero della tradizione, ai rapporti culturali con la Mitteleuropa poi e all’incorporazione dei fermenti del teatro di strada e della performance, con grandi strutture gonfiabili al centro di un’estetica singolare e riconoscibile.

Risiede dal 1998 a San Salvi, ex-città manicomio di Firenze e questa decisione si deve alle volontà dell’ultimo direttore della struttura psichiatrica, il dr. Pellicanò, che volle collegare l’uscita dei “matti” con l’ingresso della città nell’area dell’ex-manicomio.
In un’ottica di sversamento osmotico dell’una popolazione nell’altra, ove possibile, Pellicanò chiese ad Ascoli di stabilire la residenza della compagnia in un padiglione dell’ex-ospedale psichiatrico e dar vita ad un progetto culturale pluriennale di presidio attivo (San Salvi città aperta) che, a tutt’oggi, ha visto la partecipazione di circa 600.000 persone.

La creazione di un Centro di Studi dedicato ad Antonin Artaud (in collaborazione con Carlo Pasi) oltre alla produzione e l’ospitalità di grandi interpreti della danza e del teatro, hanno reso San Salvi un luogo simbolico della città di Firenze per l’arte dal vivo: un centro che ospitò diciannove anni fa, il 1° Forum Europeo del Teatro (novembre 2002), nell’ambito del più generale Forum Sociale Europeo di Firenze.

Sissi Abbondanza in ‘Casa di bambole’_foto Paolo Lauri

Ora, a quasi 50 anni dalla fondazione, incontriamo Claudio Ascoli, per parlare della sempre fervente attività della compagnia, che sarà per altro a Roma al teatro di Tor Bella Monaca dal 19 al 21 novembre con  Napule ’70, uno spettacolo sugli anni ’70 a Napoli, ma anche sui 70 anni dell’artista.

Claudio, fra laboratori e nuove produzioni, Chille riparte dall’attore? Che centralità ha questa figura nel tuo percorso umano? Hai trovato interpreti dei tuoi percorsi immaginativi in figure diversissime a cui hai affidato questo ruolo. 

Mi piace qui ripartire da quanto più di dieci anni fa un’allieva di un nostro laboratorio annotava in merito nel diario che, allora come oggi, stimolavo a tenere quotidianamente: “Durante il lavoro a casa Chille non si tende alla preparazione di uno spettacolo, ma dei singoli attori, la messa in scena ne conseguirà poi dall’unione dei loro percorsi. Fare laboratorio significa (…) camminare per traiettorie singole, diverse, ma vicine per uno stesso obiettivo che è quello dello stare nell’attenzione: stare a guardare, a sentire e ricavarne il senso. (…) Spesso questa nuova condizione provoca uno spiazzamento negli attori dilettanti e ancor peggio in coloro che hanno avuto antecedentemente una formazione teatrale d’altro tipo: su chi ad esempio è stato abituato a seguire un corso aspettandosi l’assegnazione di un ruolo o l’indicazione su quel che si deve fare, quando lo si deve fare, insomma sul come muoversi da attore. Si ha infatti la tendenza a credere nel teatro come ad una forma d’arte preconfezionata: un copione da seguire, un regista distaccato e una serie di burattini mossi dai suoi tiranti che indossano la maschera che più gli si addice. Il teatro laboratorio dei Chille propone piuttosto un assiduo lavoro di sperimentazione sul singolo e sull’insieme, sull’incontro, senza un’idea prestabilita, a parte la scelta di un tema, con la completa libertà di creare intorno ad esso senza limiti di azione o di rappresentazione.
L’intero percorso, di una serata e di mesi di lavoro, è costantemente nutrito da improvvisazioni che permettono agli attori di mettere in atto nell’immediato quello che sono e di scegliere senza avere il tempo di mediazioni psicologiche o giudizi critici. Ci si trova in questo modo a dover prendere decisioni continuamente, a volte in tempi molto ristretti, e a doversi occupare, ognuno, direttamente del problema. Si tratta di un senso di libertà talmente grande che può intimorire. Per quanto per tutta la vita si tenda a lavorare sulla centralità e la comprensione di noi stessi, una volta che ci si trova a un passo dal precipizio si ha sempre più paura di cadere che il coraggio di spiegare le ali. (…)

Il mestiere dell’attore così vissuto diviene un modo per imparare ad affrontare la vita, cadergli tra le braccia e ballare con lei o prenderla in giro ogni tanto ridendoci su, comunque sia non rimanere incastrato in quelle griglie sulle quali ti viene imposto di camminare fin da piccolo senza mai varcarne i confini. Ci si trova a muovere i propri passi su di una pedana che non è fatta a scacchi o neri o bianchi, ma a disegnarci sopra con i piedi tutte le forme che si vuole, rischiando continuamente di tornare indietro o perdersi durante il percorso di cui si diventa però completamente creatori. Il corpo nella sua totalità diventa la misura, il mezzo con il quale ci si rapporta e con il quale ci si esprime totalmente: non più subordinato alla testa, diviene con essa un insieme. Creare così come lo fa un bambino, agendo secondo necessità (…) ed esplorando con tutti quanti i sensi”.

Rispondo poi alla seconda parte della tua domanda: in quasi cinquant’anni di Teatro ho incontrato diversissime figure di Attrici/Attori! Nel tempo le cose sono molto cambiate, devo ammettere, e oggi è davvero difficile trovare l’Attrice/Attore che preferisco, capace – come prima evidenziava la giovane allieva – “di perdersi durante il percorso di cui si diventa completamente creatori”. Oggi purtroppo sempre più mi imbatto in persone che chiedono competenze, risposte, tranquillità, occasioni di visibilità, separazione tra Vita e Teatro… salvo poche, rare eccezioni.

I Chille sono stati e sono una fucina di nuovi talenti. Il teatro per voi è teatro solo se si fa con i giovani?

Da sempre faccio Teatro per imparare più che per insegnare, e proprio dai giovani, dalla loro vita così diversa dalla mia, da quella della mia generazione, ho molto da imparare. Riprendendo la tua domanda, non c’è teatro solo se lo si fa con i giovani, ma aprirsi all’incontro con i giovani è davvero necessario. Se poi questo lavoro conduca alla nascita di nuovi talenti e quali talenti, non lo so.

In che modo proseguono i tuoi percorsi nel rapporto fra complessità della mente e universo sensibile. È un incontro che è capitato o lo hai voluto?

Come dico spesso, “io non cerco, trovo”. Anche in questo caso, sono come…inciampato nel rapporto fra complessità della mente e universo sensibile. E non poteva essere diversamente per chi da oltre 20 anni fa Teatro in un ex-manicomio e incontra Persone che mostrano – più o meno apertamente – le loro ferite!

Da loro ho imparato tanto, come quel giorno che, guardando un calendario con disegni realizzati dagli Artisti de La Tinaia (nota: è un centro di attività espressive per i matti allora rinchiusi a San Salvi), mi accorsi dallo stile che doveva essere opera di una donna che chiamerò G. Le chiesi se fosse opera sua: G. scrollò le spalle e mi disse che non lo ricordava, invitandomi – se volevo saperlo – a cercare la firma. Lo feci: era davvero opera di G.! Allora, da sano-normale, sbottai: “Ma come, G., fai un disegno e non ricordi di averlo fatto?!” E lei, di rimbalzo, tranquilla: “Chille…uno le cose le fa per farle, non per ricordarsi di averle fatte.”
Una lezione.

Nei mesi scorsi un progetto sulla poetica e la figura di Baudelaire chiuso con un allestimento andato in scena a Lucca a metà mese scorso, adesso una ripresa di laboratorio sulla figura di Artaud. Come mai questo rapporto con la Francia del secolo scorso in questo tempo? Casuale? Che attualità riconosci a questi messaggi?

Un napoletano della mia generazione ha dentro di sé la cultura francese che a Napoli vedi, senti, odori in molti angoli. Io poi dai miei anni giovanili vivo in compagnia di quello che definisco il triangolo ABA: Apollinaire, Baudelaire, Artaud. Li considero tutti attuali e quanto mai necessari oggi: l’estetica della sorpresa del primo, la bellezza e lo choc come materie della creazione per Baudelaire e l’artaudiano teatro della crudeltà sono per me di un’attualità sconvolgente. Talvolta mi distacco da ABA, ma solo per brevi momenti, vivendo di continuo amorosi e sempre più profondi nuovi incontri: come appena ieri con Baudelaire ed oggi con Artaud e il suo universo.

Che progetti vedi di qui al prossimo anno per Chille?

Tutto il Teatro esce o meglio sta uscendo da un periodo difficile. Noi Chille, però, anche nel lockdown siamo riusciti senza soluzione di continuità a fare Teatro (non in streaming!), mantenendo vivo – quando e come possibile – il rapporto con i nostri Spettatori: in un’occasione ne abbiamo addirittura assunti 5 come Spett-Attori nella Giornata di resilienza civile del Teatro e dello Spettatore! E in tutto questo periodo la presenza di giovani Attrici/Attori è stata davvero significativa.

Ora ci stiamo preparando ad un anno che, toccando ferro, dovrebbe essere proprio magico! Parto mettendo in amorosa disparte i nuovi progetti appena realizzati e che pensiamo-speriamo di riproporre: “Il mondo è una unità. Si voglia o non si voglia” su Gramsci-Basaglia presentato al FestivalFilosofia di Modena (e che dà il titolo all’intera stagione 21-22) e l’evento Baudelaire proposto a Lucca. Venendo alle novità, segnalo innanzi tutto un percorso di studio su Robert Walser, lo scrittore definito un angelo caduto dal cielo! Abisso, bellezza e povertà: in queste tre parole è racchiuso il suo insegnamento. Negli ultimi anni della vita, rinchiuso in una Clinica Psichiatrica, riempì 526 fogli con una scrittura a matita minuscola e indecifrabile. Nessuno sospettò che vi fosse riposto un senso compiuto. Solo anni dopo la sua morte, si capì che quei segni illeggibili formavano una scrittura in miniatura che conteneva poesie, testi in prosa e addirittura due romanzi. Sono piccoli-grandi capolavori scritti su fogli riciclati, retro di buste poi denominati microgrammi.

In quest’anno magico, segnalo anche il momento Pasolini “E’ un brusìo la vita”, l’evento speciale – “Tracce di vita sensibile” – sulla memoria di San Salvi da Campana, Venturi e Pescioli, un Molière in forma di opera buffa napoletana “Lo ammalato immagginario” e la nuova produzione sull’amore necessario da Antonin Artaud-Colette Thomas. Infine, saranno in residenza a San Salvi due giovani Artisti, vincitori della ultime edizioni del Festival Storie interdette: Luca D’Arrigo e Ilaria Marcuccilli. Nel 2022 questo Festival si fonderà con l’altro, Spacciamo Culture, dando vita a Spacciamo Culture interdette,  destinato ad Artisti-Creatori under 35 sia di installazioni visive che di performances/narrazioni.

Incrociamo le dita!

Come pensi che il teatro stia raccontando il tempo che stiamo attraversando? È lo sarà mai in grado di farlo, secondo te?

Lo racconta con difficoltà, direi. Spesso vedo una sorta di rimozione/semplificazione dei problemi che porta solo ad attendere in questo tempo sospeso-sequestrato.

Nel mio ultimo spettacolo Napule ‘70 così rispondo ad una domanda analoga alla tua, interrogato sul Covid e su cosa fare: “(…) Covid-19 è respiro, ha dimensione sensuale: quando ci innamoriamo, ci manca il respiro. E’ l’eterno gioco tra Vita e Morte. E allora che si fa? Attendere…per ritornare come prima? No. Bisogna subito immaginare, inventare una Vita e un Teatro capaci di rigenerare l’incontro, e nella relazione sensuale corpo a corpo, anche a distanza! Un incontro che tolga il respiro, come nell’innamoramento. Ri-creare comunità. Questo è il Teatro del nostro tempo!”
Ci riusciremo? Sinceramente, non lo so. Forse – da napoletano che ha già vissuto il colera, il terremoto, la partenza dalla sua amata città, l’arrivo in un manicomio che stava per chiudersi – penso che per farcela dobbiamo trovare senza paura IL GUIZZO DOLCE E FANTASTICO DELLA DISPERAZIONE.
Viva il Teatro, il Teatro VIVE…anche tra mille difficoltà!