ILENA AMBROSIO | Una donna in un completo bianco latte in una stanza bianco latte, una porzioncina della sua casa in cui sentirsi al sicuro: un divano a sinistra, una libreria al centro, un tavolo con oggetti vari a destra (una pera, un pacchetto di Golia, fogli, penne). La luce che la illumina riverbera dei colori pastello di cui si tinge il fondale. In questo spazio dalle linee ordinate, che già pare anche un luogo mentale, abita Lucia Mascino assieme alle parole di Smarrimento di Lucia Calamaro (visto al Teatro Nuovo di Napoli e da domani 1 febbraio al Teatro India a Roma). È una scrittrice in standby, incagliata tra inizi di romanzi che non trovano la giusta rotta per approdare a un finale e i cui personaggi le fanno compagnia, anzi, la attraversano come per rivendicare il proprio diritto di esserci, di esistere anche se solo “iniziati”.

Così la scrittrice è spinta dai suoi editori a incontrare il pubblico con un reading: Incontralo questo pubblico, visto che non pubblichi… ripete lei nel tono di compassionevole biasimo che è il loro ma anche il suo verso sé stessa. Però no, li detesta i reading, meglio una chiacchiera in cui vi presento certi miei personaggi che abitano l’inizio di questo romanzo: Anna, donna in carriera trasferitasi per lavoro e Paolo, suo marito, rimasto solo con la figlia Margherita.
Li presenta incarnandoli, dicendoli, dicendone i pensieri, i sogni, le visioni, o almeno provandoci. Non so fino a che punto una visione possa essere parlata… non so fino a che punto il suo dirsi assomigli al suo essere. Un’immagine, parlarla non è facile… Anna: voce ferma, profonda, un po’ malinconica nel descrivere i sogni e le immagini che le affollano la mente. Paolo: un parlare più “terra terra”, più mascolinamente pratico nel raccontare le difficoltà di un quotidiano inaspettato.

Foto Giulia di Vitantonio

E, tra una “possessione” e l’altra, lei, la scrittrice. La voce appena tremolante, come di chi potrebbe avere un crollo di nervi da un momento all’altro – Io vi dico una cosa: date la colpa ai nervi, di tutto! – ma allo stesso tempo briosa, cristallina; gli occhi che si socchiudono nello sforzo di afferrare un’idea che è sfuggita – La tragedia delle idee che cadono, queste idee che non mi reggono proprio i metri, io mi sposto e cadono… –; il passo agitato da un punto all’altro della stanza, una posa stanca sul divano, le mani che accompagnano la parola. Cerca il contatto con il pubblico – Non bisogna perdere il contatto visivo, che di questi tempi… io mi ci attacco agli occhi – al quale quasi si avvinghia con il continuo intercalare di un No?, come a cercare conferma della presenza di quell’Altro al quale valga la pena dire, scrivere; gli chiede il permesso di andare avanti, forse proprio di esserci – Allora incominciamo… se non vi secca… vi secca? –; lo inonda di una verbosità incessante: citazioni – Faccio continuamente citazioni, come se non mi bastassi, no? –; digressioni – Oddio queste divagazioni… – le indecisioni su cosa mangiucchiare – Pera o caramella? Poi ci sono delle scelte improvvise… Pera, strano, pensavo di non sceglierla la pera…
Un flusso fatto di continui inizi interrotti, di argomenti lasciati sospesi perché si è incapaci di continuarli, di dargli una forma giusta, adeguata, soddisfacente. Del resto, quando non si riesce a continuare non si può far altro che ricominciare.

Ma lì, tra i flutti del mare di parole, tra la sintassi incalzante, le battute brillanti, i neologismi  che danno forma al sentire, le citazioni colte, c’è un nucleo, il nucleo dal quale prendono forma tutte le figure così meravigliosamente sproloquianti che popolano la drammaturgia della Calamaro. È il dolore. «Tutte le sue opere si riducono in fondo a questo, a una sola reiterata epifania del dolore cosmico, del dolore come inscindibile componente della condizione umana» aveva scritto il compianto Renato Palazzi nell’introduzione al volume Il ritorno della madre dedicato al teatro di Lucia Calamaro. Che sia lo strazio della malattia, una depressione senza scampo, l’angoscia della morte che ferma la vita, la solitudine scelta in un paese spopolato, è sempre un dolore a mettere al mondo questi personaggi. E sembrano imparentati, infatti: ciascuno, in qualche modo, richiama un dettaglio dell’altro, ne rievoca – come in una… mise en abyme – la condizione: l’indecisione davanti al frigo della Daria di L’origine del mondo, il vagare per i corridoi di un ospedale sognato da Anna segue i passi della Madre di Tumore; il rifiuto dell’altro è quello di Silvio in Si nota all’imbrunire. Tutti, ugualmente, parlano per rispondere all’attanagliante e ossessivo bisogno di tirare fuori il proprio dentro. Tutti, del resto, accomunati dal fatto di essere nati.
Che c’avrò mai avuto che mi ci vuole tutta una vita per riprendersi? Sospetto che il punto centrale sia la nascita… ma non è chiaro, eh, non potrei affermarlo con certezza. Non c’è prova né evidenza che ci voglia tutta una vita per riprendersi dallo shock di essere venuti al mondo.
Il brillante sarcasmo di una cosa detta quasi en passant. Ma poi una pausa, un sospiro di stanchezza, la voce che cala per un secondo, gli occhi che diventano, improvvisamente, tristi… Il dolore se ne sta nei dettagli e ci dice che non è passeggero, è consustanziale al vivere stesso.

Come si fa a liberarsi da questo? Per tentativi forse, iniziando sempre qualcosa, partendo dalla magia e dall’entusiasmo degli inizi: che poi la cosa bella sono proprio gli inizi, no? La vita che comincia, uno comincia, le cose cominciano… che cosa incredibile che sono gli inizi… Come continuano le cose sinceramente chi se ne frega, ma come cominciano…

Solo che poi ci si perde, si resta invischiati nella spicciolaggine del quotidiano, così meschina, così poco epica, e per sfuggirle ci si chiude in un proprio mondo, spesso in una mania, in una fissazione – Guarda, basta una qualsiasi mania ben coltivata a renderti migliore – o magari facendosi fare compagnia da personaggi immaginati, anche se scollati e sgusciati, fino a confondersi con loro, a smarrirsi, rischiando di diventare come quelli, come tutti – o i più almeno – rinchiusi nei propri mondi autoreferenziali, incapaci di ascolto, di incontrare le persone vere. Evitando la vita.

Tocca organizzarsi, allora, per sopravvivere e, se sei una scrittrice, un vantaggio ce l’hai: puoi metterlo lì, in qualcun altro, il tuo dolore… Organizzatevi, mettete il vostro dolore da qualche parte. Non lo lasciate andare a spasso così, sciolto che poi siete preda, no no… Un cassetto, una strada, una porta, una canzone, va bene tutto… Che poi mica uno può andare in giro con tutto il suo dolore addosso, chi lo regge, no?… Quindi va bene tutto, il dolore va messo lì, così uno manda in giro una versione di sé più composta, più ripulita… Il dolore va messo a posto nei posti: un tunnel carpale, un’anca, un ricordo… va bene tutto, va bene tutto.

Non si possono scindere i testi della Calamaro dalle voci che li hanno pronunciati. Benedetta Cesqui in Tumore, Daria Deflorian in L’origine del mondo, Simona Senzacqua in La vita ferma, Silvio Orlando in Si nota all’imbrunire. Anche per Smarrimento, al quale le due artiste lavorano già dal 2017, la parola drammaturgica aderisce al dire e all’agire della Mascino che la incarna come fosse la sua propria, corredandola di uno stare in scena minuzioso, dettagliato, di grande fascino. Una malia che riempie i vuoti di una (pseudo)trama sfilacciata, volutamente slabbrata dell’apoteosi dell’iniziare e dal tortuoso ma spontaneo, nevrotico, ironico e a tratti naïf procedere mentale della donna.
E, del resto, l’evento (proprio come lo chiamerebbe Alain Badiou, citato da Lucia/scrittrice)  drammaturgico dei lavori della Calamaro non può che essere la parola stessa, il modo in cui attraversa la figura in scena diventando voce e azione. Tanto più in un testo come questo che offre uno sguardo sulla condizione che spesso vive proprio chi le crea quelle parole. Uno smarrimento, appunto, che, però, a ben vedere, è lo smarrimento di cui si è preda di fronte alla vita, all’incapacità di viverla, di continuarla dopo averla – nostro malgrado – iniziata e che fa aggrappare a quella speranza che, nonostante tutto, ogni inizio regala.
All’inizio c’è sempre qualche speranza in più, è innegabile… ogni giorno, no?, ricomincia… se non fosse per questo, ma perché?

 

SMARRIMENTO

uno spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro
per e con Lucia Mascino
scene e luci Lucio Diana
costumi Stefania Cempini
allestimento tecnico Mauro Marasà
tecnici Cosimo Maggini, Michele Stura, Jacopo Pace
amministratore di compagnia Serena Martarelli
direttore di produzione Marta Morico
organizzazione, distribuzione Alessandro Gaggiotti
assistente di produzione Claudia Meloncelli
comunicazione e ufficio stampa Beatrice Giongo
produzione MARCHE TEATRO