EUGENIO MIRONE | Adolf Eichmann, gerarca nazista, l’uomo responsabile di aver pianificato la “soluzione finale” rendendo possibile lo sterminio di milioni di ebrei, è seduto al banco degli imputati. Indossa un paio di occhiali neri, sembra tranquillo. È l’11 aprile del 1961, presso la corte distrettuale di Gerusalemme si sta aprendo il processo che condannò Eichmann per crimini contro l’umanità. In uno dei settecentocinquanta posti presenti in aula era seduta anche Hannah Arendt, politologa e filosofa tedesca, in qualità di inviata del New Yorker.
A partire dai suoi scritti, oltre che dai verbali degli interrogatori, Stefano Massini ha lavorato per realizzare il suo ultimo lavoro Eichmann. Dove inizia la notte. Nell’atto unico, portato in scena al Piccolo Teatro di Milano con la regia di Mauro Avogadro, di quei settecentocinquanta posti non c’è più traccia. Hannah Arendt, interpretata da Ottavia Piccolo, ha la possibilità di dialogare con Eichmann, Paolo Pierobon, guardandolo direttamente in faccia e di porgli una semplice domanda: «Chi era lei?». Un uomo che, in fondo, come chiunque sognava di far carriera e di vivere una vita agiata insieme alla sua famiglia: questa sarà la scoperta sconcertante.

La scena progettata da Marco Rossi ha un’impostazione fortemente geometrica risultante dalla sovrapposizione di più ambienti sviluppati su piani autonomi intersecati fra loro. Sedie, gradini e rialzamenti, nella loro disposizione, ricordano ora l’aula di un tribunale, ora la sala di un interrogatorio. Due sedie poste ai lati opposti del fronte palco, con accanto due appendiabiti sopra ai quali si trovano appese rispettivamente una giacca militare nazista e una divisa da campo di sterminio, accennano vagamente a un ufficio/spogliatoio. L’intera scena è avvolta da una tonalità scura (quasi ogni elemento, infatti, è di colore nero) che ricrea un’atmosfera angosciante.

All’interno di questo ambiente prende avvio il dialogo basato sullo schema di un interrogatorio: a ogni domanda incalzante rivolta dalla filosofa tedesca corrisponde una risposta fornita con estrema naturalezza dal gerarca nazista. Vengono così a formarsi micro-sezioni, ciascuna delle quali corrispondente al ricordo di un frammento della vita di Eichmann.
Ne consegue una struttura regolare e ritmata, solo a tratti leggermente ripetitiva. All’interno di ogni piccolo “quadro”  i due attori occupano posizioni ben precise: la regia di Avogadro, infatti, sembra aver studiato ogni elemento, in particolare la prossemica, nei minimi dettagli. Paradossalmente, a causa di questo eccesso di attenzione, la pièce sembra procedere in maniera lievemente automatica, come un carillon al quale sia stata data la carica appena prima dell’apertura del sipario.
Punti di forza della pièce sono, senza dubbio, il commento musicale dall’ampio respiro storico di Gioacchino Balistreri, i costumi impeccabili di Giovanna Buzzi e il disegno luci di Michelangelo Vitullo, variegato nell’utilizzo di diversi tagli di luce in grado di esaltare perfettamente ogni situazione. Gestiti sapientemente da Avogadro, tutti questi elementi contribuiscono a sottolineare il passaggio tra le diverse micro-sezioni dello spettacolo.

Foto di Tommaso Le Pera

Il vero cuore del testo risiede, però, nel confronto tra Hannah Arendt e Adolf Eichmann. Piccolo e Pierobon dialogano ardentemente, senza esclusione di colpi, e si rendono complici l’uno dell’altro di un’eccezionale prova attoriale. Più che sullo scambio di battute sembra di assistere a un dialogo tra monologhi. Uno scrittore della levatura di Anton Čechov si era servito di questa tecnica per sottolineare l’incomunicabilità tra i personaggi delle sue opere; analogamente, sembra che tra Arendt e Eichmann non sia possibile comprendersi. Sarà utile soffermarsi su qualche passaggio per capire meglio.
Nelle battute iniziali della pièce Eichmann, con indosso giacca e occhiali, racconta di come salvò la famiglia del suo datore di lavoro ebreo grazie al quale, in gioventù, riuscì a sfuggire dalla miseria. Nella sua logica, questo gesto dimostrerebbe come egli non odiasse gli ebrei, i quali si trovarono solamente «nel posto sbagliato, al momento sbagliato».
Per Eichmann, infatti, fu tutto un gioco, in cui ogni ruolo comportava un punto di vista: il suo era quello di eseguire il lavoro senza farsi troppe domande. Ruolo e persona andrebbero, tuttavia, mantenuti distinti come dimostra il fatto che fra lui e “loro” non c’era «nessuno odio, nessun rancore». Questa è una visione inconcepibile per Hannah Arendt, in quanto fortemente convinta che sia proprio l’umanità a dover guidare ogni persona nello svolgere la propria funzione.

«La tentazione era di non uccidere» è la frase pronunciata da Eichmann per giustificare il suo rifiuto a redigere il verbale di relazione sulle camere a gas, una volta venuto a conoscenza della “soluzione finale”. La frase è un’autentica doccia fredda per la filosofa tedesca. Nella logica comune, infatti, si è tentati a compiere il male; nel folle mondo nazista, invece, la realtà si era completamente capovolta: ora bisognava resistere alla tentazione di salvare delle vite, di compiere del bene, perché il male era diventato la regola.

Ci si appresta alla conclusione dell’opera; tuttavia, Eichmann non rivela alcun segno di rimorso. Nella sua ottica, infatti, tutto era già deciso: lui era solo un ingranaggio della macchina. Se non se ne fosse occupato lui, ci sarebbe stato qualcun altro al suo posto.
Ancora una volta Arendt esprime disappunto, questa volta chiamando in causa la storia di Sophie Sholl, una giovane studentessa che venne giustiziata insieme al fratello in quanto manifestò pubblicamente il suo dissenso nei confronti del Reich. Anche Sophie, infatti, avrebbe potuto pensare “Ho vent’anni, se accuso Hitler di genocidio cosa ottengo? Mi faranno fuori e tutto continuerà come se niente fosse”. Qui però sta il punto: Sophie School non lo pensò. Gridò, gettò i suoi volantini. Lo fece, mi spiego? Lo fece. E non fu inutile. Perché io oggi, qui, posso dirle che imparo da lei. E non il coraggio, no: la dignità».

Dalla prova di Ottavia Piccolo traspare con forza il dissidio che alimenta l’animo di Hannah Arendt, combattuta tra il desiderio di scoprire le ragioni profonde del pensiero di Eichmann e il bisogno di prendere una posizione netta rispetto alla sua inconcepibile visione. Fin dalle prime battute appare chiaro che davanti a sé non si trova un assassino, un nemico del genere umano, bensì un uomo spaventosamente normale. Pierobon ne veste magistralmente i panni, restituendoci con placida acutezza la natura spiazzante del suo personaggio.

Tutto ruota intorno alla natura sfuggente di quest’uomo. Una cosa, però, si riesce a mettere a fuoco senza difficoltà: ragionando secondo questa logica, se al posto del nazismo ci fosse stata qualsiasi altra cosa, il risultato sarebbe stato lo stesso. «Fra me e voi niente di personale. Nessuno odio, nessun rancore. Quello che ho fatto, l’ho fatto soltanto per far carriera. Era lavoro, non c’è altro».
Peggio di fare del male aderendo a un’ideologia c’è solo il compierlo in “assenza di pensiero”. Bisogna essere categorici: mettere da parte la coscienza e sospendere la facoltà critica rappresentano il più grande pericolo per la nostra società. Compiere il male è estremamente facile; la civiltà umana, invece, si è costruita come un castello di carte e ognuno dovrebbe fare la sua parte perché un banale soffio di vento non lo butti giù.

 

EICHMANN
Dove inizia la notte

di Stefano Massini
con Ottavia Piccolo e Paolo Pierobon
regia Mauro Avogadro
scene Marco Rossi
costumi Giovanna Buzzi
musiche Gioacchino Balistreri
luci Michelangelo Vitullo
produzione Teatro Stabile di Bolzano / Teatro Stabile del Veneto

Piccolo Teatro Grassi, Milano
24 febbraio 2022