RENZO FRANCABANDERA | L’oracolo di Delfi rivela a Laio, re di Tebe, che il figlio avuto da Giocasta, divenuto grande, lo avrebbe ucciso; allora il re consegna il neonato a un pastore perché lo abbandoni sulla vetta del Monte Citerone. Siamo davanti a uno dei miti fondanti la cultura occidentale, quello di Edipo. La sua dimensione tipicamente tragica lo colloca al simbolico crocevia (presente anche nella vicenda) tra incidente (athikema), errore inconsapevole (hamartema) e colpa (adikema). A questo trivio si genera una copiosa letteratura interpretativa e reinterpretativa, che ancora non si esaurisce, rinnovata dalla lettura psicanalitica del secolo scorso.
Nel paradigma edipico, infatti, è insita anche l’accettazione, fino alle estreme conseguenze, del “conosci te stesso”, il detto che campeggiava sul tempio di Apollo a Delfi, con il protagonista che vuole fino in fondo scoprire la “sua” verità, nonostante il prezzo che essa avrebbe comportato.

Un mito antico e teatrale, che già seicento anni prima di Cristo era presente e a cui Sofocle nel V secolo a.C. si rivolse per diverse sue opere, l’Edipo Re, l’Edipo a Colono e l’Antigone, innovandone i tratti distintivi.
E se i pochi punti ferrei della vicenda mitologica erano la Sfinge, il parricidio e l’incesto, questi non furono sufficienti al pubblico dell’epoca per prevedere lo sviluppo che ne avrebbe offerto Sofocle, condensato nel terrificante autoaccecamento, gesto che non sembra aver fatto parte della figura di Edipo prima della versione offerta nella tragedia in questione, né compare nelle versioni contemporanee o immediatamente successive.
Si tratterebbe, quindi, di una variazione della tradizione del mito di Edipo introdotta specificatamente da Sofocle e su cui gioca anche la regia dello spettacolo di cui parliamo, Edipo Re – una favola nera di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, che vede il protagonista, dentro un taglio di luce laterale e basso che squarcia il buio, entrare in scena adulto, come un viandante barbone con un seguito di fagotti, fardello di un vissuto di cui ci verrà svelato. Pare un sogno quello della rivelazione mitica, fra indagini psichiche, dimensione onirica e i segni millenari del teatro. Ad accoglierlo un coro di tre figure che quasi ci ricordano le streghe di Macbeth e che si muovono, entrando in scena, come gechi sulla parete di legno del fondale, animali abituati a vagare nel buio.

Francesco Frongia e Ferdinando Bruni da tempo seguono un percorso di ricerca molto libera su segni scenici e commistione fra linguaggi, con particolare attenzione alle arti visive e plastiche. Un percorso iniziato anni fa e che continua attraverso creazioni di cui vediamo esito annualmente nella programmazione del Teatro dell’Elfo.
In particolare questo lavoro, che aveva avuto un prequel concettuale – come posto in evidenza nel dialogo avuto dai registi con Gilda Tentorio sempre sulle pagine di PAC – mette insieme una serie di segni scenici che riguardano tutto l’allestimento, dalla bellissima scenografia art brut chiaramente ispirata alle opere di Kounellis, fino ai clamorosi costumi realizzati da Antonio Marras e alle maschere gotiche di Elena Rossi.
Il pavimento del teatro è ricoperto di una finissima sabbia bianca; pendono sulla destra attaccati a delle corde dal soffitto, dei sassi. Più dietro una pedana rialzata e una serie di tavole di legno bianchi a fare da parete di una costruzione che viene resa comunicante con lo spazio performativo attraverso due porte, i cui battenti sono realizzati in tessuto di juta, e che si sollevano per dare di volta in volta accesso ai personaggi che, dal fondo del palco, invisibile allo spettatore, accedono alla parte visibile.
Uno spazio dunque tripartito fra un dietro le quinte, una parte edificata che sarà poi la reggia in cui vivranno come regnanti Edipo e Giocasta, e la strada, luogo in cui si svolgono numerose azioni  della vicenda mitologica.
Ma in questo caso non è il testo sofocleo tal quale ad esser messo in scena bensì un ricamo che abbraccia numerosissime suggestioni letterarie e che vuole attraversare la storia dei linguaggi che hanno accolto la vicenda edipica, cercando un delicatissimo equilibrio fra classico e contemporaneo.
Esemplificativa del tentativo, poco dopo la scena del coro, la vicenda della Sfinge, in cui subito lo spettatore si trova di fronte a una cifra testuale ironica e dissacrante, ma anche ad un recitato che cerca il gesto, altro elemento che ritorna enfaticamente nell’allestimento e che passa dallo scavo dentro movenze dark punk ad antichi gesti rituali, con le braccia levate al cielo, quasi sacerdotali.

“Si tratta di una storia che tutti già sanno perché non è storia d’invenzione, bensì, appunto, mito, cioè racconto esemplare, accreditato da una memoria collettiva e secolare, radicata e insieme dispersa nel tempo dei tempi. Ma l’autore, Sofocle, finge che il suo protagonista non conosca la propria storia, sicché, mentre sulle ali di tale finzione la straniante atemporalità del mito diventa presente fino a dissolversi, di nessun altro personaggio tragico si può dire pienamente, come di Edipo, che ricerchi il proprio passato lungo l’intero arco dell’azione drammatica”. Così commenta Massimo Stella la sua traduzione per la Carocci del 2010 del testo sofocleo. E questa questione della ricerca del passato, del destino iscritto nel proprio dna, viene evocata nell’allestimento da una serie di segni video, che paiono legarsi alla rilettura della figura edipica elaborata da Freud e alla sua concezione dell’Uomo.
Il bambino è un piccolo perverso polimorfo che per accedere alla dimensione umana deve superare il complesso di Edipo, cioè sottomettersi all’autorità ed identificarsi con il padre. Identificazione e sottomissione, innescate dall’angoscia di castrazione, che diventano dinamiche fondamentali dell’Uomo, la cui nascita originaria viene sostituita da una nascita psicologica, che consiste nella costruzione, da parte del bambino, delle mappe cognitive necessarie a orientarsi nel mondo. Sono queste alcune delle suggestioni che pare di cogliere in un elemento scenico forse meno legato agli altri nel codice dei segni, ma cui comunque viene demandata questa funzione suggestiva di rimando all’inconscio infantile, anche con l’introduzione del concetto di ereditarietà che in questo caso diventa anche chiave per l’abolizione di ogni responsabilità dell’Uomo/Edipo.
I Tebani, come noto, accoglieranno Edipo, che li ha liberati dalla Sfinge, come un eroe e poiché il loro re è stato assassinato gli viene offerto il trono della città e quindi la mano di Giocasta, vedova del re ucciso.

La scena dell’incoronazione è una delle più belle ed evocative dello spettacolo, in cui la notevole Giocasta di Mauro Lamantia e l’Edipo sempre un po’ fanciullo e inconsapevole di Valentino Mannias, incastrati come Winnie e Willie di Giorni felici in vestiti che paiono montagne (onestamente stupendi, in cui si leggono nella trama del vestito edipico fatta di scampoli tutte le riflessioni di Marras sul personaggio e la sua vicenda) vengono incoronati come marionette, con i costumi e le corone che cadono dall’alto su di loro, come condanne.
Ma improvvisamente a Tebe scoppia una terribile pestilenza ed Edipo ricorre all’oracolo, il cui responso chiede che la fine del contagio si avrà solo con la cacciata dalla città dell’uccisore di Laio. Edipo interroga Tiresia (un Ferdinando Bruni che con timbro e arte dell’attore incarna questo ed altri personaggi dello spettacolo con una grande generosità interpretativa, e giocando sui travestimenti dietro le bellissime maschere quasi veneziane di Elena Rossi). Accompagna Bruni in questa e altre scene un preciso Edoardo Barbone, che pare talvolta uscire dalle movenze della commedia dell’arte, assai a suo agio fra maschere e costumi. Ispirati per tutto lo spettacolo sono i segni di luce di Nando Frigerio, che giocano proprio fra luce e buio, rivelazione e oblio.

Tiresia indirizza Edipo  alla tragica scoperta della verità, verso cui la vicenda precipita nella parte finale, e in cui fra accecamento, sonno, ritorno alla posizione fetale e alla rivelazione onirica, viene in qualche modo rielaborato nello spettacolo il mistero dell’ascendenza, cioè della nascita e del modo in cui questa possa influenzare il futuro destino dell’uomo, tanto che come ebbe a dire Maurizio Bettini, la vicenda di Edipo inaugura il genere del “giallo”, ma con una straordinaria capacità di eccezione perché in questo caso il detective arriva a scoprire di essere lui stesso l’assassino, non vedendo (da cieco ex ante) ciò che ad un certo punto è evidente a tutti.

La lettura registica abbraccia la considerazione che l’umano non sia descrivibile o definibile, e quindi lascia la rappresentazione del mito in balia dei mille venti che lo hanno accarezzato nei millenni, cercando di far convivere i segni, le parole dei tanti scrittori che ne hanno scolpito la figura, in un testo che sa di sacro e dissacrato assieme, cosa che accade in quasi tutto l’allestimento, in cui i fautori del classico lo ritroveranno attraverso il testo ma costretti a restare perturbati dalla sua manomissione, e i fautori del contemporaneo saranno accontentati dal sistema di segni scenici così ampi, ma che poi ritornano, quasi sparendo, alla semplicità del peplo, del mito, nello stesso conflitto irrisolto nello sguardo fra le videoinstallazioni e le pietre à-la-Kounellis.
In definitiva, si tratta di uscire da un di-lemma che si rivela insolubile nella misura in cui le due riletture, la classica e la  contemporanea, sono lette come contrapposte e reciprocamente escludentisi. L’operazione registica, pur con le sue complessità, sta in questa ricerca di far convivere gli opposti: ne viene fuori un lavoro articolato, con momenti intensi che restano nella memoria dello sguardo.

 

EDIPO RE – Una favola nera

di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
con Edoardo Barbone, Ferdinando Bruni, Mauro Lamantia, Valentino Mannias
costumi di Antonio Marras
realizzati da Elena Rossi e Ortensia Mazzei
maschere di Elena Rossi
luci di Nando Frigerio
suono di Giuseppe Marzoli
assistente alla regia Alessandro Frigerio
assistente scene Roberta Monopoli
assistente costumi Elena Rossi
si ringrazia Tonino Serra per la decorazione del mantello di Edipo
produzione Teatro dell’Elfo

prima nazionale