GILDA TENTORIO | Edipo re. Una favola nera sta riscuotendo grandi consensi, e gli artefici e co-registi Ferdinando Bruni e Francesco Frongia sono chiaramente fieri della nuova creatura teatrale. Mi dedicano con generosità il loro tempo e nella spiegazione a due voci ritrovo la cifra caratteristica degli Elfi: l’insaziabile curiosità, unita alla voglia di sperimentare e di stupire il pubblico, offrendo percorsi mai scontati.

Dopo la pausa forzata del lockdown, siete tornati a rielaborare il progetto edipico di Verso Tebe, che era uno studio-concerto. Un tratto comune ai due lavori è la traccia artistica di Jannis Kounellis, pittore e scultore greco naturalizzato italiano, esponente di spicco della “arte povera”, scomparso nel 2017. Che cosa vi ha colpiti del suo messaggio artistico?

FB: Nel 2019 la Fondazione Prada ha proposto una retrospettiva a Venezia su Kounellis e siamo rimasti affascinati dalle sue installazioni con vestiti e cappotti. Abbiamo sfruttato questa suggestione in Verso Tebe per alludere alla presenza del popolo di Tebe, un popolo che subisce le colpe dei Grandi: infatti noi camminavamo su questi abiti “vuoti”, ricordi di corpi. Ci piace molto lo sguardo di Kounellis, che usa forme e materiali contemporanei e al tempo stesso riesce a trasmettere un’idea di eternità, di arcaico, e in questo si percepisce senz’altro la sua radice greca. Così anche in Edipo siamo partiti da materiali “eterni”: terra, sabbia, legno, le quinte fatte di sacchi di juta. E invece la struttura lignea, con una passerella lunga orizzontale l’abbiamo attinta dal teatro fortemente ritualizzato giapponese, il Teatro No.

FF: Abbiamo voluto togliere qualsiasi possibilità di realismo, e all’insieme (immagini, video, costumi) abbiamo tolto ogni riferimento temporale. Tutto in Edipo è atemporale ed eterno, come i muretti a secco presenti in tutto il bacino del Mediterraneo, fatti con pietre che sono lì da secoli. Abbiamo imparato a farli così, ed è questa la cosa giusta. Una sapienza ancestrale che si andava perdendo e ora fortunatamente si sta recuperando.

Infatti nello spettacolo si respira un’atmosfera mediterranea ma soprattutto arcaica e arcana, espressa però in un linguaggio vivo. Una doppia stratificazione quindi, che crea un cortocircuito: segno sacrale e antichissimo, espresso da una voce contemporanea. È stato difficile lavorare in questo scavo verticale della parola, dalle origini all’oggi?

FB: Abbiamo scelto una atemporalità che rimandasse a un’area culturale precisa, il Mediterraneo appunto. Certo la Grecia, ma anche la Sardegna (e sardi sono il protagonista, Valentino Mannias, il costumista-star Antonio Marras e il co-regista Francesco Frongia). Ancora più misteriosa della Grecia è la civiltà sarda, a cui volevamo rinviare per accennare alla possibilità di un Edipo addirittura precedente a Sofocle. Nel nostro lavoro abbiamo esplorato più di duemila anni di scritture su Edipo (il nostro approdo finale è agli anni ’70 del Novecento): abbiamo armonizzato i vari linguaggi, ma a volte una stessa battuta attraversa i secoli. Ad esempio nella scena di Tiresia, un verso inizia nel V secolo a.C. e finisce con Pavese. Questo viaggio affascinante ci ha dato la sensazione di lavorare con un patrimonio dell’umanità, non più su un testo.

FF: Rispetto alla “versione-studio” di Verso Tebe qui abbiamo analizzato soprattutto l’aspetto della ritualità. Lo spettatore e l’attore sono chiamati a compiere un rito, quasi in un senso sciamanico. Abbiamo lavorato quindi sui cori e sulle singole evocazioni (l’apparizione di Manto, il Coro della peste), che sono diventati momenti di forte concentrazione per l’attore. Ecco allora il tappeto sonoro di musica cadenzata e di ritmo che scandisce duramente lo scorrere del tempo e il pensiero dell’azione, la richiesta verso un aldilà interrogato, ma che non darà mai risposta.

Qual è il rapporto fra parola e fisicità?

FB: Lo spettacolo è breve ma a noi richiede grande energia e una forte concentrazione sulla parola e sul rapporto fra parola-corpo. La fisicità degli attori e i movimenti a volte sono quasi danzati, non tanto sul ritmo della musica ma sul ritmo della parola. La parola nasce proprio dal movimento.

FF: Ad esempio il Coro iniziale (costruito con frammenti da Sofocle) serve a lanciare il racconto: il Coro dialoga anche se Edipo, che è sulla via di Colono, sta dormendo. Tutto si è già compiuto e lui sogna quanto gli è successo. L’entrata stessa del Coro è segnata dalla fisicità: sbucano come da dentro, si insinuano dalle fessure della scenografia frontale e il pubblico li percepisce come qualcosa che si sta insinuando nella scena e nella mente del personaggio appena entrato, che non si è ancora rivelato. Il Coro gli parla, ma è chiaro subito che parla da un altro livello, e infatti i tre attori sono sopra la pedana, incombono come uccelli del malaugurio e mantengono questa astrattezza nei movimenti, che non sono veramente danzati: è un movimento da cui nasce la parola e che nasce dalla parola, in uno scambio circolare.

Sono molto intensi ad esempio i due momenti della Sfinge e del Pastore, interpretati da Ferdinando.

FB: Ogni voce ha la sua caratteristica, che le viene dall’autore e dal momento storico che ha prodotto quella riscrittura. La Sfinge rappresenta la furia femminile che lancia un’accusa violentissima contro il maschile tossico, e l’abbiamo inserita (da Berkoff Alla greca), perché dà un apporto molto interessante e inedito allo scontro fra Edipo e la Sfinge. Edipo infatti, il maschio, la sconfigge con la freddezza della razionalità, senza però pensare che risolvendo l’enigma, diventa lui stesso un enigma. In qualche modo sì, la Sfinge è vinta, ma alla fine vince lei, perché proprio sconfiggendola, Edipo arriverà alla propria rovina. Nel personaggio della Sfinge ho mescolato vari linguaggi: la violenza iniziale, che poi però scivola nella malizia e quasi in una caricatura da cartone animato.

FF: Al pastore abbiamo affidato il coro-monologo sul destino: neanche a Dio è consentito mutare il destino. Si tratta di una visione dura, molto primitiva e arcaica che si può immaginare portata avanti da un pastore, uno dei mestieri più antichi del mondo, depositario quindi di una sapienza ancestrale. Ci interessava che il pubblico si chiedesse: come mai quelle pietre in scena? È importante che scaturisca questa domanda, e noi abbiamo qui inserito l’idea della ritualità, ribadita dal gesto e dal materiale. Le parole sono accompagnate dal gesto rituale di cozzare le pietre, un gesto arcaico, un rituale primario, di quei tempi antichissimi in cui non esistevano ancora templi e chiese, ma si usavano i sassi per creare un ritmo e attirare l’attenzione del sovrannaturale.

Il vostro lavoro coinvolge uno spettro variegato di segni: scenografia essenziale (arte povera di Kounellis), costumi nati dalla fantasia dello stilista Marras, musica, video, parola, gesto rituale. Come si svolge il vostro “laboratorio” per arrivare alla tessitura armonica dei diversi segni?

FB: La parola-chiave del nostro lavoro è “stratificazione”: sul testo, sulle immagini e sui costumi. Il testo è stratificato, ma non in ordine cronologico. Si tratta di suggestioni accostate fra loro, che creano scintille e cortocircuiti, e di ogni autore abbiamo preso il momento che ci sembrava più efficace per raccontare la storia di Edipo. Ad esempio, la versione di Dryden e Lee contiene una scena d’addio malinconica fra madre e figlio, che abbiamo inserito perché dà a Giocasta uno spessore diverso, non solo pura disperazione, ma amore di madre-moglie. Anche i costumi sono nati da un processo di stratificazione: ad Antonio Marras abbiamo dato una descrizione della funzione del personaggio all’interno della storia e qualche suggestione letteraria e cinematografica, e lui ha cominciato a lavorare prima ancora di leggere il testo definitivo. Infatti nella mostra che potete vedere nel foyer dell’Elfo ci sono i disegni preparatori, che raccolgono queste prime suggestioni di un’idea che si stava formando. Poi per ogni personaggio ha creato una specie di scultura stratificata di abiti: noi gli abbiamo messo a disposizione il nostro magazzino dei costumi e lui ha preso, fatto, disfatto, riassemblato.

FF: Il nostro modo di lavorare è per accumulo. Accumuliamo pensieri e immagini, e li lasciamo decantare. È lo stesso procedimento del vino: una lenta distillazione. E alla fine i diversi segni si amalgamano: i video non li senti più come video, ma come parte del progetto, i costumi non li senti più come costumi (e in effetti sono invenzioni totalmente atemporali), perché fanno parte di un progetto in cui noi siamo contemporaneamente – per continuare con l’immagine della vendemmia e distillazione – quelli che spremono e quelli che assorbono e consumano.

ph. Lorenzo Palmieri

La vostra stratificazione infatti ha il pregio di un risultato limpido e per nulla barocco: è questo il segreto della distillazione?

FF: ll processo di stratificazione ci ha permesso infatti di arrivare al nocciolo, al mito primario, alla struttura quasi favolistica. Una delle sfide per lavorare su Edipo è trovare un segno che lo renda a suo modo “facile”. All’inizio ero quasi spaventato: da dove prendere Edipo? È un mito denso e difficile, che ha pervaso la cultura occidentale in stratificazioni infinite. Quando invece lo “riassumi”, le cose cambiano…

FB: Shakespeare ci ha insegnato che il modo migliore per arrivare in profondità è raccontare bene la storia. Perché è senz’altro la storia di Edipo che affascina, crea senso e domande. Proviamo allora a raccontarla come una favola! E in effetti scopri che ne ha tutte le caratteristiche: abbiamo un bambino consegnato al pastore perché lo abbandoni nel bosco (come Biancaneve), poi l’eroe sconfigge il mostro e in premio riceve in sposa la bellissima principessa. E così via, Edipo è il condensato di molti luoghi tipici delle favole. E se ci pensiamo, anche la favola dura nei secoli, perché evidentemente ha a che fare con la possibilità di smuovere pensiero e domande dentro di noi che sono ancora vive.

Un’ultima suggestione. Il vostro Edipo entra in scena e sogna la propria storia. Quindi il mito è sogno?

FB: Il mito è una storia che riesce a essere tangente anche alla nostra vita. È come un sogno che fa l’umanità. Il sogno iniziale è tratto da Edipo e la Sfinge di Hoffmansthal, scritto in epoca freudiana. E non a caso Freud da Edipo trae la suggestione che poi traduce nel celeberrimo concetto di ‘complesso edipico’, una modalità a nostro avviso forse un po’ rigida perché depotenzia il discorso mitico, però ha il merito di riportare il mito all’inconscio, e quindi in qualche modo al sogno che lo abita. Sì, il mito è un sogno che si tramanda nei secoli.

FF: Tornando a Shakespeare, direi che il mito “è fatto della stessa sostanza dei sogni”. I sogni infatti ci costringono a farci delle domande. Quando sogniamo, non sappiamo il perché, e tutte le volte che sogniamo restiamo spiazzati, incuriositi e ci poniamo la domanda: perché l’ho fatto e che cosa vuol dire? È la stessa domanda che gli uomini si pongono con il mito: perché è così? E ritorna ancora il tema dell’enigma. Non a caso il nostro spettacolo si conclude con delle domande (il rapporto volontà-destino, quanto siamo davvero padroni della nostra vita e quanto invece dipende da fattori fuori del nostro controllo): sono temi che ci riguardano tutti e sempre.


EDIPO RE – una favola nera

uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
con Edoardo Barbone, Ferdinando Bruni, Mauro Lamantia, Valentino Mannias
costumi di Antonio Marras
realizzati da Elena Rossi e Ortensia Mazzei
maschere di Elena Rossi
luci di Nando Frigerio
suono di Giuseppe Marzoli
assistente alla regia Alessandro Frigerio
assistente scene Roberta Monopoli
assistente costumi Elena Rossi
si ringrazia Tonino Serra per la decorazione del mantello di Edipo
produzione Teatro dell’Elfo