FLAVIA POLDI | L’8 luglio si è conclusa la VII edizione del Fuori Programma Festival a Roma, che vede nomi affermati della danza internazionale e artisti emergenti impegnati in un calendario fitto di incontri, spettacoli, laboratori e residenze. È ideato e prodotto da Valentina Marini, in collaborazione con il Teatro di Roma, il Teatro Biblioteca Quarticciolo e grazie al contributo del bando triennale di Roma Capitale dell’Estate Romana. Numerosi i luoghi che hanno visto la realizzazione di un unico organismo vivo e mobile, una “comunità in transito”, così la definisce Marini, verso un territorio da riscrivere collettivamente, facendolo divenire protagonista di una rinascita cittadina insieme ai singoli progetti artistici che lo hanno abitato: Il Teatro Biblioteca Quarticciolo, il parco di Tor Tre Teste nel quartiere Alessandrino, la piazza Quarticciolo e il Teatro India.

A chiudere questo viaggio è stato One More Thing del coreografo israeliano Adi Boutrous, grazie alla collaborazione con l’Ambasciata di Israele in Italia, che si è svolto nella suggestiva arena del Teatro India.
Boutrous nasce a Beer Sheva in Israele nel 1989. Studia come ballerino e performer alla Matte Asher School nel Kibbuts Gaaton in un programma di danza professionale a Tel Aviv. Le sue creazioni coreografiche si stanno affacciando sul panorama internazionale, come il Théâtre de la Ville di Parigi, la Biennale de la Danse di Lione, il Belgrade Dance Festival, il Julidans Festival, il Kalamata Dance Festival. La sua coreografia di debutto, What Really Makes Me Mad, ha ricevuto il Primo Premio al Shades of Dance Festival 2013.

A Roma ha presentato il suo ultimo lavoro, concepito nel 2020. L’arena del Teatro India, un luogo architettonico-storico industriale non convenzionale nella cittadella dell’ex fabbrica Mira Lanza e dominato dal Gazometro sull’altra riva del fiume Tevere, è un teatro a cielo aperto dove il palcoscenico elevato dal terreno è un quadrato bianco candido con gli spettatori disposti su tutti e quattro i lati. Non vi è un fronte, ma l’intero spazio sarà esplorato dai ballerini.
È l’ora del tramonto e la luce del sole, che sta per scomparire e che illumina l’arena, sembra quasi restituire l’impressione di stare per assistere a un rito magico. In una sorta di estrema religiosità si entra come in una processione e con estrema calma ci si siede al proprio posto, dando modo al pubblico di prepararsi e di poter riuscire a sintonizzarsi con l’azione scenica che sta per avvenire.

Inizialmente si ha un’impressione di spaesamento. È un palco insolito, un palco nudo e la confusione che si percepisce, forse, è data proprio dall’assenza di un punto di riferimento a cui appoggiarsi, facendo nascere la curiosità in chi è lì in attesa di capire e vedere. Una spettatrice, che ci precede nell’entrata, va a cercare il posto migliore in cui sedersi, cercando il fronte dove i ballerini dovrebbero esibirsi, ma è solo durante lo spettacolo che ci si renderà conto che non ce n’è uno “migliore”. Gli artisti infatti si muoveranno costantemente per tutto lo spazio scenico, restituendo al pubblico un’idea di infinito.

Foto© Ariel Tagar

Quattro danzatori, compreso lo stesso Boutrous, entrano in scena. Si mettono in cerchio, restano in ascolto. La stasi iniziale viene interrotta dal ritmo delle mani che, mentre vengono battute, generano un flusso di energia e vanno a creare una sorta di connessione tra i ballerini. Anche il pubblico riesce a sintonizzarsi: l’impressione che si ha è di un unico respiro collettivo. Il corpo si fa strumento di dialogo, gli occhi, le mani, le braccia, le gambe e i respiri si riempiono di significato, creando empatia tra i singoli nel gruppo, rendendoli un unico organismo. Siamo di fronte a un cerchio magico, un rituale tutto al maschile dove la virilità e la potenza del singolo individuo lasciano il posto alla forza e al valore del tutt’uno, inteso come gruppo.

La danza di Boutrous incarna perfettamente gli aspetti della nostra esistenza, dove ognuno cade, si rialza, corre, si ferma, aspetta oppure va. L’ensemble, alternandosi tra danze singole e danze corali, dando voce ciascuno alla propria diversità, fa emergere l’importanza della cooperazione, del rispetto reciproco, della solidarietà e della necessità di scambio e relazione, affinché ognuno sia in grado di superare quei limiti, quelle paure, quelle avversità che si presentano nel percorso di crescita personale e collettivo.
Nella fase corale gli artisti sembrano ostacolarsi, il sentimento da cui si viene rapiti è una grande frustrazione, non c’è evasione, non c’è libertà. Questa sensazione lascia il posto poi a un sentimento di compassione verso il singolo danzatore che si esibisce e che, solamente in apparenza, può dare l’impressione di essere libero. È un uomo sofferente, perché solo. Il singolo senza l’aiuto degli altri, forse, non è in grado di varcare quei confini.

Anche nei momenti in cui sembra non accadere niente, i quattro danzatori respirano all’unisono e si ascoltano, tra cadute e riprese, corse accelerate che culminano in posizioni di corpi che diventano vere figure statuarie. L’estrema fluidità e dinamica dei movimenti è potente e si fa centrale come metafora di cooperazione e necessità di fare squadra per essere più forti nell’essere insieme.

Foto© Ariel Tagar

Vi è una ricerca incessante dell’equilibrio e la responsabilità dei danzatori è necessaria affinché ogni figura coreografica non venga interrotta. Basterebbe una mano o un piede di traverso per far vacillare le posizioni e la dinamica estrema dei corpi, mentre si arrampicano uno sull’altro, corrono, cadono, si riprendono e si tengono. Ognuno è artefice del completamento dello stesso medesimo movimento.

La luna è salita e la notte ha preso definitivamente il posto del giorno. Il rito è concluso e mentre i quattro uomini terminano la loro danza si alza un vento forte, persistente come i bisogni e il senso di responsabilità che l’uno deve avere nei confronti dell’altro.
One More Thing ci porta a riflettere sulla nostra società e sul nostro ruolo all’interno di essa. Ci fa riflettere su noi stessi, lasciandoci un senso di tenerezza, che però lascia un po’ di amaro nell’anima. Troppe volte ci crediamo forti del nostro essere soli.
Adi Boutrous, con la sua danza, ci riapre gli occhi facendoci pensare al fatto che, in fondo, siamo uno, ma in mezzo a tanti altri: la sola forza del singolo non ha mai portato da nessuna parte.

 

ONE MORE THING

coreografia Adi Boutrous
performer Ariel Gelbart, Jeremy Alberge, Uri Dicker, Adi Boutrous
lighting design Ofer Laufer
soundtrack design e editing Adi Boutrous
costumi Stav Struz Boutrous
co-prodizione Adi Boutrous, Théâtre de la Ville–Paris and fabrik Potsdam supportato da The Foundation for Independent Creators fondato dal Ministero di Cultura e Sport e il programma di residenza presso l’Arab–Jewish community Center, Jaffa.

Fuori Programma Festival VII Edizione
Teatro India, Roma
8 luglio