GILDA TENTORIO | L’anno 2022 è stato una festa del teatro per la Grecia, perché il ministero della Cultura lo ha riconosciuto come “Anno Kambanellis”, dedicato cioè alla memoria del padre del teatro greco moderno, Iakovos Kambanellis (1921-2011) , di cui si sono celebrati i cent’anni dalla nascita. Conferenze, dibattiti, nuove pubblicazioni, nuove rappresentazioni.

La festa però si è tinta di lutto nello scorso settembre. Nel giro di una maledetta settimana sono scomparsi diversi attori di teatro e di cinema (l’indolente attenzione dei media italiani ha ricordato soltanto Irene Papas). Ma la ferita più lancinante è stata un mese fa la perdita di Marios Pontikas, uno dei maggiori drammaturghi del dopoguerra . Nato a Mitilene nel 1942, studia economia ma presto si dedica alla scrittura: pubblicità, sceneggiature per la televisione, racconti. La folgorazione è per il teatro. Collabora con i grandi artisti dell’epoca e le sue opere saranno rappresentate nella Grecia degli anni Settanta e oltre.

Marios Pontikas

Qualche anno fa ho avuto il privilegio di conoscere da vicino questo grande uomo. Gli ho chiesto con trepidazione l’appuntamento per un’intervista e ricordo che tremavo: era la prima volta che mi capitava di dialogare con un drammaturgo greco vivente. Mi ero occupata in passato di Eschilo, Sofocle, Euripide e come tutti i filologi avevo fantasticato sulla possibilità di averli un giorno davanti e poterli interrogare su tutti i passi oscuri. Questa volta avevo di fronte un gigante del teatro greco contemporaneo: baffi, sigarette, sguardo vivacissimo e humour pungente. Dietro la scorza di apparente severità, si nascondeva un uomo dolcissimo, premuroso verso gli altri, ironico, sensibile e attento all’attualità, tormentato dai tragici cicli di violenza e sangue che la Storia ripropone. Marios mi ha insegnato un nuovo sguardo sul mondo e soprattutto sul teatro.

È passato già un mese e il dolore si mescola all’incredulità per una perdita irreparabile. I suoi amici, sgomenti, hanno affollato i social di ricordi e tornava più volte la parola oxyderkeia, cioè sguardo acuto e lucido sulla realtà, caratteristica tipica di Pontikas. Ad ogni incontro, dapprima ti squadrava studiandoti in silenzio, poi gli occhi brillavano sornioni ed ecco la battuta spiazzante, il viso che si apre in un sorriso mentre spalanca le braccia per un abbraccio.

L’umanità della sua figura, che le parole restituiscono in modo troppo opaco, si lega all’eccezionale spessore delle sue opere. A lungo Pontikas, uomo greco del XXI secolo, si è interrogato sui meccanismi basilari del teatro. Possono i nostri occhi penetrare la complessità della vita degli altri? In apparenza si tratta di un’attenzione “sociale”, ma la problematica è raffinatamente metateatrale: Pontikas critica gli sguardi assenti o distratti della società, ma al contempo ti fa sobbalzare sulla poltrona perché tu sei il destinatario, lo spettatore-testimone che assiste e contempla le miserie umane. E allora forse la catarsi può venire proprio dallo sguardo consapevole, che forse un giorno si trasformerà in azione. In questa direzione vanno i suoi drammi, in cui ci mostra la curiosità voyeuristica che sconfina nell’indifferenza, la critica censoria fondata solo sull’apparenza, la mania ipertrofica di osservazione del mondo che si rivela però cieca sugli orrori della propria interiorità. Pontikas ha interiorizzato la lezione del teatro dell’assurdo e nel suo teatro, che è stato catalogato decenni fa come ‘realistico’, ha ritratto le storture della società, l’homo homini lupus, la violenza delle convenzioni, il crollo dei sogni e delle speranze. Mentre descrive la realtà, ne individua le crepe, strappa le maschere con il bisturi dello sguardo critico, fa a pezzi le convenzioni, con una tendenza al grottesco deformante.

Ho conosciuto Pontikas nella sua ultima e sorprendente fase di scrittura teatrale. Era rimasto assente dalle scene per una quindicina d’anni, osservando il mondo, straziato dal suo pessimismo esistenziale. Torna all’improvviso nel 2004, l’anno dell’euforia olimpica, con una scrittura prosciugata, che si è frammentata in folgorazioni poetiche. Si tratta di un testo straordinario, L’assassino di Laio e i corvi.

L’assassino di Laio e i corvi – Teatro Stoà (2004) – protagonista Thanassis Papagheorghiou

In una miscela esplosiva di reale e astrazione, un personaggio, visibilmente provato, decide di di rilasciare un’intervista (ecco ancora il tema dello sguardo: noi siamo il suo pubblico). Le sue dichiarazioni sono confuse e contraddittorie, ma a poco a poco, insieme a lui e al suo sgomento, capiamo. Lui è Edipo, perfettamente consapevole dell’oggi, eppure assassino del padre, e dunque tutto sta per ripetersi. Arriva a confermarlo anche una creatura mitica, un corvo con capacità profetiche, che annuncia l’apocalisse. Questo testo ha suscitato l’attenzione degli studiosi ed è diventato presto un modello del riuso profondo,, originale e post-moderno del mito nella Grecia del XXI secolo.

Il passaggio dal Pontikas ‘realista’ al Pontikas ‘mitico’ ha sorpreso molti. Ma se rileggiamo oggi anche le sue opere precedenti oppure le riportiamo in scena (come è successo per Il matrimonio, 1985, rappresentato con grande successo nel 2020. Teaser qui), riconosciamo il magma di un’inquietudine che allora era forse più sotterranea, ma con il nuovo secolo fluisce libera nell’esplosione della poesia e nell’allegoria universale del mito.

Pontikas mi spiegava che l’unico linguaggio (logos) possibile, nel nostro mondo globalizzato e frastornato dalle parole vuote e da una visione pseudo-illuministica, è il linguaggio del mito. La fonte originaria della parola oracolare, senza orpelli, poetica e soprattutto pre-razionale. E infatti la ricerca dei suoi ultimi anni ruota proprio intorno allo scavo della parola. In prosa ha prodotto dei brevi racconti, parabole acutissime ambientate in mondi astratti e assurdi, venate di una sferzante ironia che per certi versi ricordano la prospettiva scanzonata di Luciano di Samosata o la lucidità delle Operette Morali del nostro Leopardi.

La stesura teatrale gli richiedeva più tempo, trascrizioni febbrili di sogni, nottate di letture di saggi e romanzi, un rovello interiore, ripensamenti e cancellature, fino allo sbocciare di una scrittura scabra, semplice e complessa, poetica e allegorica. I suoi personaggi mitici lottano con il logos e arrivano all’afasia. Potentissima è una sua Cassandra che cerca di avvisare il mondo del prossimo disastro, o il saggio Chirone che, lacerato nella sua doppia natura di centauro, rifiuta la sua parte umana e sceglie il cavallo, e dunque l’urlo-nitrito (Nitrito, 2011).

Il critico Tsatsoulis lo ha definito “l’eterno adolescente” della scena greca per la sua capacità metamorfica di trovare una nuova lingua adatta ai nuovi tempi. Un esempio di scrittore in sintonia con la sua epoca, che non smette mai di scavare, con l’insopprimibile urgenza di scrivere e di urlare al mondo anche verità scomode. Un amico lo ha ricordato come “il più dolce misantropo”, con un accostamento ossimorico che rispecchia quella sua abitudine di presentarsi con il viso arcigno, pronto a sciogliersi in una risata. Il suo era un pessimismo esistenziale che nascondeva però una profonda tenerezza e compassione per l’uomo e i suoi errori.

Marios se ne è andato all’improvviso. Stava scrivendo un’opera nuova. Mi aveva anticipato alcune idee, naturalmente potentissime. Avevamo appuntamento in novembre, ma ha avuto fretta ed è partito da solo… Ora ci guarda da lassù. Me lo immagino mentre beve il caffè in compagnia di Sofocle e di Beckett. E già mi sembra di sentire lo scroscio della sua risata contagiosa, dopo una delle sue battute pungenti. Buon paradiso, Marios, e grazie!