MATTEO BRIGHENTI | Le parole costruiscono l’amore; le azioni lo distruggono. Dire è immaginare e nella fantasia ogni promessa è mantenuta. Tutto è possibile, tutto è perfetto. Di più: tutto è già compiuto, in eterno. Fare è tradurre quel sogno nella lingua del reale, ma tradurre è tradire. Perché ciò che si fa concreto si corrompe, entra nel tempo e diventa finito. Quindi, imperfetto, mortale. E un cimitero è il luogo scelto da Giovanni Ortoleva per raccontare con sensibile intelligenza la rovinosa caduta dell’amore ideale nel suo Lancillotto e Ginevra, in prima assoluta al Teatro Fabbrichino di Prato.

Lancillotto e Ginevra. Foto di Giulia Pec Lenzi

Le tombe non sono delle lapidi in pietra, ma i pezzi di due armature, riuniti all’inizio a formare come una croce, prima di essere disseminati da Ginevra. Verosimilmente appartengono al malvagio Meleagant, che l’ha rapita, e al valoroso Lancillotto, che l’ha salvata, e poi l’ha sottratta al marito legittimo, Re Artù. Ma appartengono anche a ogni singolo caduto sulla strada di un amore fedifrago che, per continuare a essere puro, doveva restare impossibile. È il “focolare” di ferro e di sangue attorno a cui Riccardo Favaro e lo stesso Ortoleva si sono riuniti per riscrivere in modo alto, dolce e furioso, il mito cortese, mettendo a fuoco e fiamme da Chretien de Troyes a sir Thomas Malory, da Dante Alighieri a Robert Bresson: autori che quel mito hanno contribuito a fondare.
Leda Kreider ed Edoardo Sorgente si manifestano dalla spessa oscurità che assedia il palcoscenico sui tre lati. Interpretano con magnetica precisione e pietà profonda le presenze di Ginevra e di Lancillotto, tanto becchini chiamati a seppellire i corpi e le colpe, quanto fantasmi costretti a vivere morti senza pace. Quel nero fitto, ritagliato dal disegno finissimo di Massimo Galardini, è la fine dal principio degli amanti, è la sorte a cui sono legati per sempre, destinata per questo a compiersi di nuovo e ancora.
Dunque, Lancillotto e Ginevra riprende un filo perso nel passato e lo riannoda all’oggi di un’onoranza funebre dentro la discesa agli inferi di un amore esploso da più parti e in più pezzi, che sono tutto quello che c’è e viene usato sulla scena. Un incubo funesto e funestato, dove costante è la figura del cerchio, ovvero la trappola del tempo, per cui le cose sono immobili, ma anche inevitabili.

Lancillotto e Ginevra. Foto di Giulia Pec Lenzi

La schermaglia di parole è un gioco di travestimenti e infingimenti, corre tra l’essere e il sembrare, il dovere e il potere. Attrice e attore sono i soggetti, ma anche gli oggetti della narrazione: muovono la loro sembianza primaria, cioè la regina e il cavaliere e, parimenti, sono mossi e abitati da tutti gli altri personaggi che i due incontrano lungo questa spericolata odissea della sragione amorosa. Per riuscirci, bisogna essere interpreti ispirati e rigorosi, dall’orecchio assoluto: Kreider e Sorgente lo sono eccome.
Rimane un limite da non oltrepassare: il contatto dei corpi. Ma tutto nello spettacolo, o meglio, lo spettacolo in sé e per sé, congiura perché sia oltrepassato. Dio stesso ne è complice. L’indifferenza per le sue creature ribelli è un mutismo impenetrabile a qualsiasi preghiera, richiesta di aiuto, finanche supplica.
Lancillotto e Ginevra si baciano per avere in due una stessa bocca e unire così il loro dire, che diventa, d’ora in avanti, il loro dirsi reciproco. La forza è maggiore, è amplificata, tanto che sul palco vengono portati due microfoni. L’atto in quanto tale, però, non è innocuo. Li precipita nel baratro della realtà. Li espone, rendendo il loro sentimento concreto, visibile. Quindi, attaccabile. E infatti in scena la luce sale, come le armi di un plotone di esecuzione.

Lancillotto e Ginevra. Foto di Giulia Pec Lenzi

Questo amore ora è pubblico, e di dominio del pubblico. Le armi puntate sono i nostri occhi. Il plotone siamo noi che guardiamo qualcosa che non siamo in grado di sostenere. Non siamo in grado di capire. E proprio per questo siamo venuti qui a vederlo finire. Morirà Re Artù, moriranno con lui la poesia, l’uguaglianza. Si sfascerà, insomma, il Paradiso in Terra della Tavola Rotonda, perché Lancillotto e Ginevra si sono messi contro il mondo, arrivando a fingere una purezza sull’innocenza del sangue versato.
Hanno sbagliato. Hanno peccato. Nonostante tutto, in Lancillotto e Ginevra non c’è alcuna traccia di giudizio. C’è, al contrario, grande rispetto e umanissima compassione. Lo prova con grazia la scelta finale di Giovanni Ortoleva, scelta decisiva, che definitivamente ti conquista: l’ultimo incontro del cavaliere e della sua regina, l’ultimo respiro comune di un uomo e di una donna innamorati, appartiene solo a loro. È soltanto loro. E di nessun altro.

LANCILLOTTO E GINEVRA
di Riccardo Favaro e Giovanni Ortoleva

regia di Giovanni Ortoleva
musiche di Pietro Guarracino
luci Massimo Galardini
con Leda Kreider e Edoardo Sorgente
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il supporto di Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave / Kilowatt), Diffusioni / KanterStrasse Teatro, Olinda onlus / TeatroLaCucina

Prima Assoluta

12 novembre 2022
Teatro Fabbrichino, Prato