RENZO FRANCABANDERA | Ha debuttato in prima assoluta al Teatro Storchi di Modena, in una coproduzione ERT e Fondazione Teatro di Napoli / Bellini, in collaborazione con Attis Theatre Company, Aspettando Godot, il capolavoro di Beckett diretto dal regista greco Theodoros Terzopoulos. In scena un rimarchevole cast composto da attori che in varie occasioni hanno collaborato con ERT: Paolo Musio, Stefano Randisi, Enzo Vetrano, Giulio Germano Cervi e Rocco Ancarola.
In origine doveva essere messo in scena un classico, le Baccanti, e solo quando si è compreso che l’idea produttiva iniziale non era percorribile, Terzopoulos ha proposto alla squadra di attori di affrontare la sfida di Beckett.
È evidente che l’aspettativa, per qualsiasi appassionato del linguaggio della scena, nasceva proprio dall’incontro fra il maestro, noto non solo per i suoi allestimenti ma anche e soprattutto per la sua metodologia di training e la sua pratica laboratoriale che svolge nella sede della compagnia a Delfi, e il duo di grandissima esperienza composto dalla coppia Vetrano-Randisi, che deve l’origine dell’incandescenza del proprio percorso all’incontro con un altro maestro che di analoghe pratiche fra teatro e laboratorio è stato tra i principali fautori in Italia: Leo De Bernardinis.
Il tuffo nella memoria non è inopportuno perché l’allestimento di un testo così radicato nelle poetiche letterarie e teatrali del secolo scorso rimanda, sia per il regista sia per gli interpreti,  a memorie e sapori che hanno a che fare tanto con la loro maturità quanto con gli esordi: furono proprio testi come Aspettando Godot a sancire il completamento della rivoluzione nel linguaggio della scena, con la deflagrazione definitiva dell’impianto drammaturgico del teatro borghese che si era affermato fra fine Ottocento e inizio Novecento, deflagrazione cui avevano già contribuito per un verso le esperienze futuriste e dadaiste, e poi sicuramente la poetica brechtiana.

Beckett stesso fu allievo di Joyce, che lo introdusse a tecniche narrative e forme letterarie sperimentali e senz’altro rivoluzionarie per l’epoca. Il metodo di lavoro del drammaturgo era assai laborioso e nasceva dalla redazione di bozze lunghissime, di cui manteneva nella versione finale solo una piccola parte, con l’opera vera e propria spesso costituita da dialoghi corti ed effimeri e fondati su postulati epistemologici non di rado assurdi, come anche nel caso di Godot, che della poetica dell’assurdo è fra i manifesti preclari.
La redazione dell’opera occorse dopo un periodo di buio per lo scrittore, iniziato con la morte del padre nel 1934, con lui non ancora trentenne, a seguito della quale, per via di un forte stato depressivo si trasferì a Londra per curarsi.
Fu nel soggiorno a Londra, in particolare nel decennio postbellico (1945-1955), che ebbe la fortissima spinta creativa che gli permise di arrivare alla redazione di Aspettando Godot.

In scena oltre al duo Vetrano/Randisi, occorre menzionare la presenza di uno degli interpreti feticcio, se così possiamo dire, del regista Paolo Musio, che da anni ha messo al servizio del regista il suo spiccato talento. Fra queste, indimenticabile per fatica e concentrazione, Eremos alla Rocca di Vignola, su scenografia di Kounellis, in cui l’attore per tutta la recita non muoveva le palpebre.
Diverse le questioni che di quello spettacolo ritornano nella rilettura che Terzopoulos propone di Beckett, nella crasi fra le forze opposte che nell’umano si completano, cristallizzazione dell’elemento razionale da un lato e dell’istinto e degli di impulsi dall’altro. Il conflitto fra queste due forze, tema centrale anche della tragedia classica, potrebbe essere assimilato alla lotta di un corpo stanco, sulla soglia della morte, con le sue ultime, ancora potenti espressioni di energia vitale. La suggestione interpretativa trova in parte conferma nell’originale approccio del regista ai testi classici, come fonte di indagine simbolico-antropologica per indagare questioni universali dell’essere umano: «abbiamo bisogno di grandi idee, di grandi tensioni, come quelle della tragedia classica: tra umano e divino, tra uomo e uomo, tra privato e pubblico. A vincere non è la buona recitazione o la regia, ma la forza del conflitto che portano sulla scena».

A completare la squadra di lavoro, perchè tale obiettivamente appare nel modo del recitare, sono i giovani ma già valentissimi Giulio Germano Cervi e Rocco Ancarola, il primo profondamente inserito nel sistema di pratiche del regista e che è stato anche assistente alla regia per questo lavoro.
Il gruppo si è avvalso delle collaborazioni di Panayiotis Velianitis per le musiche e di Michalis Traitsis per la consulenza drammaturgica. Il resto del pensiero relativo al sistema dei segni presenti nell’allestimento, ovvero scene, luci e costumi, è opera di Terzopoulos.

A cosa rimanda dunque questa matrice semiotica? Lo spettacolo si avvia sotto il suono di una sirena, un segnale di allarme. Quasi lo confondiamo con il messaggio che per molti mesi i teatri italiani hanno deciso di usare e divulgare all’inizio degli spettacoli per ricordare ed esprimere solidarietà con le vittime del conflitto in Ucraina.

in uno spazio scenico oscuro, senza luci spiccano, invece del salice piangente presente nel testo, un piccolo bonsai al centro del proscenio, illuminato in maniera fioca da un puntatore, e a distanza di pochi metri un grande cubo nero alto quattro metri, che si rivelerà presto una struttura mobile suddivisa a sua volta in quattro quadrati capaci di sollevarsi e aprirsi creando uno squarcio a forma di croce, un elemento che il regista sceglie più volte; non pare di poter attribuire alcuna interpretazione di tipo cristologico a questo segno nel corso dello spettacolo. Se proprio occorre fare qualche rimando iconico spirituale, l’atmosfera generale ricorda piuttosto una tenebra dantesca, sospesa fra Inferno e Purgatorio, da cui affiorano le anime, come rivelazioni.
Si tratta di anime in tuta mimetica che, quando dopo lunga parte della recita si mostreranno completamente allo sguardo dello spettatore, riveleranno tutte una sanguinolenza alle tempie, come se fossero state giustiziate: ecco quindi che collegando la sirena, i trasandati pantaloni da tenuta mimetica di ispirazione militare, il segno inequivocabile del sangue alle tempie, immaginiamo che quelle figure che abbiamo davanti, non solo quelle dei due personaggi principali ma tutte, siano di un altro mondo.
Sono forse esistenze trapassate, ma che proprio in questo stare oltre, si permettono di suggerirci il lusso di guardare alla vita con ironico e sarcastico disincanto.

La nota assurda, nella lettura del maestro greco, assume un carattere quasi psicanalitico, come se le epifanie delle altre figure presenti nella drammaturgia fossero estrinsecazioni di dinamiche inconsce, che compiono le loro azioni nel retropensiero da cui accedono.
Musio entra in scena lacerando una grande membrana/imene con un coltello, e così pure altra vita, altra anima viene fuori nello squarcio che si apre sotto i piedi di Vladimiro ed Estragone, un sottoscala della psiche da cui viene fuori, in una avvolgente luce rossa infernale, un Germano Cervi il quale alla fine del monologo che lo vede protagonista, strappa un applauso a scena aperta. E di lì sbucherà ancora, muto, doloroso, in un grido non pronunciato, per andare poco dopo a prendersi il bonsai e portarlo con sè nel suo oltremondo.

Dire del testo di Beckett risulta pleonastico, dentro un’interpretazione dello stesso così legata al sentimento soggettivo dello spettatore, che progressivamente si perde dentro le cinque raffinate interpretazioni, coordinate e mosse da una unità emotiva.
Pur nella freddezza di una drammaturgia in cui nulla si vuole che accada, restiamo avvinti dentro un sentimento di umana fragilissima dolcezza di cui i due protagonisti sono incarnazione, come pure di angosce e tentazioni, di paure e violenze, rivelazioni dell’inconscio che i due cercano quasi di ricacciare dentro il cubo, richiudendo la botola dell’indicibile da cui vengono fuori. Ma non ci riescono mai del tutto, una volta aperto quello spiraglio, presente fin dall’inizio e quindi dato, il gioco è fatto.
La visione che apre lo spettacolo: i due corpi stesi orizzontali, quasi due salme pronte a entrare in un forno crematorio, si scioglie progressivamente in una serie di piani interpretativi mai espliciti e univoci ma che lasciano allo spettatore, come gli arcani nei tarocchi,  il compito di essere decodificati.
Quindi pur sapendo già che nulla accade e nulla accadrà, e che saremo avvolti nella noia esistenziale dei due protagonisti, ugualmente siamo costretti a fare i conti con i rigurgiti dell’inesprimibile, le sembianze e le fattezze di quello che non conosciamo, interpretati dagli altri protagonisti in scena cui Terzopoulos attribuisce un ruolo pesantissimo nell’equilibrio di senso dell’allestimento, lontani dalle figure ancillari e minori che spesso abbiamo visto portate in scena.
Godot qui sembra quasi essere l’auspicio che qualcuno arrivi a decodificarci, a semplificare il compito cui gli esseri umani sono dannati a vita: cercare il proprio demone, la propria identità profonda, la rivelazione del proprio io, come in Stalker di Tarkovskij. Ma come dice Lacan e come forse arriva a suggerire qui Terzopoulos, tale conoscenza probabilmente non arriva mai: possiamo solo avvicinarci al grande mistero, ma questo resta inconoscibile.
E occorre esserne consapevoli.
Vladimiro ed Estragone in questo allestimento non si disperano, anzi quasi sorridono quando per l’ennesima volta viene annunciato che il Godot che aspettano da tutta una vita non arriverà. Sarcasticamente, con piglio esistenziale, ma carezzandosi l’un l’altro, commiserandoli in un abbraccio laocontesco, soggiungeranno “come passa il tempo quando ci si diverte”,  interrogandosi su quali siano le condizioni minime per pensare a una vita che valga la pena di essere vissuta.
L’anarchica leggerezza del sorriso e la ricerca di sè, pur nella consapevolezza che questo mistero profondo resterà inconosciuto, come Godot, restano due chiavi potenti per indirizzare l’esistere. Forse sono proprio le vicinanze, le carezze di un Estragone o di un Vladimiro, a dare forza a ciascuno di affrontare la propria croce.
Insomma, in vita, meglio evitare monologhi e affidarsi di tanto in tanto all’abbraccio dell’altro: forse poca cosa, forse un bonsai, ma può riscaldare l’anima.

 

ASPETTANDO GODOT

di Samuel Beckett
copyright Editions de Minuit
traduzione Carlo Fruttero
regia, scene, luci e costumi Theodoros Terzopoulos
con (in o.a) Paolo Musio, Stefano Randisi, Enzo Vetrano
e Giulio Germano Cervi, Rocco Ancarola
musiche Panayiotis Velianitis
consulenza drammaturgica Michalis Traitsis
assistente alla regia Giulio Germano Cervi
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Attis Theatre Company
interpreti e personaggi:
Enzo Vetrano – Estragone
Stefano Randisi – Vladimiro
Paolo Musio – Pozzo
Giulio Germano Cervi – Lucky
Rocco Ancarola – Ragazzo

Prossime date 2023:
17-18 gennaio, Teatro Asioli – Correggio
21 gennaio, Teatro Comunale – Casalmaggiore
25 gennaio, Teatro Comunale – Teramo
27 gennaio, Teatro Comunale – Russi
29 gennaio, Teatro Amintore Galli – Rimini
31 gennaio – 5 febbraio, Teatro Vascello – Roma
8 febbraio, Teatro Comunale Manini – Narni
14 – 16 febbraio, Teatro Comunale Chiabrera – Savona
18 febbraio, Teatro Comunale – Belluno
24 febbraio – 5 marzo, Teatro Bellini – Napoli