VINCENZO RICCIO | Tra numerose rappresentazioni-evento, l’anno nuovo allo storico Teatro Sannazaro di Napoli si apre con l’assurda contemporaneità pop degli universali sentimenti shakespeariani, riletti e rivistati dando vita a un racconto antico dal sapore decisamente nuovo. Scriveva Mario Praz introducendo lo Shakespeare nostro contemporaneo di Jan Kott: «Morte o trasfigurazione: l’opera d’arte non resta mai quale nacque».

Alla festa di Romeo e Giulietta si sviluppa nei cardini conosciuti della tragedia del Bardo, masticato e rimodulato dalle penne sapienti di Benedetto Sicca, che ne firma anche la regia, ed Emanuele D’Errico, fautori di una traduzione fedele al dramma e, insieme, alla contemporaneità dello spettatore. Sono così mescolati i versi shakespeariani alle nostre stesse parole, alla ricerca della cifra della libertà. Prodotto da Tradizione e Turismo – Centro di produzione teatrale del Teatro Sannazaro, lo spettacolo, inserito nel progetto SOS Teatro (dove “SOS” sta per “sospeso” – causa Covid, al tempo della chiusura e dello stop anche dei teatri), prende vita da una residenza ospitata negli spazi del Cantiere Sartoria, il locale dove aveva sede la sartoria teatrale della compagnia di Luisa Conte, oggi destinato a progetti di residenza per drammaturgie contemporanee italiane e internazionali.

In scena la compagnia del quartiere Sanità Putéca Celidònia con quattro giovanissimi del loro laboratorio Inputéca Recitando e due degli artisti che usualmente gli gravitano attorno come Francesco Roccasecca, nelle vesti dell’erborista francescano Lorenzo, e Tommy Grieco, la cui console scandisce, sottolinea ed enfatizza il testo senza soluzione di continuità, alternando composizioni techno e significanti silenzi, a contrasto.
In maniera significativa l’oggetto attribuito a Romeo sono le cuffie, indossate le quali – nel momento in cui vede per la prima volta Giulietta, innamorandosene («L’amore dei giovani / Non risiede dunque nei loro cuori / Ma soltanto negli occhi», scrive Shakespeare) – la serrata ritmicità techno diventa dolce violino: Romeo ascolta (e parla) un’altra musica (un’altra lirica).
Diventa, allora, proprio la musica, e tutto il lavoro di sound design operato da Grieco, il protagonista esterno che consolida la relazione empatica instauratasi tra testo, attori e pubblico. Relazione suggellata dal disegno luci di Luigi Della Monica, invasivo, ma mai invadente, giocato perlopiù sui toni del blu, e dall’importante scenografia del maestro Luigi Ferrigno (premio Le Maschere del Teatro Italiano 2019 per La cupa di Mimmo Borrelli): un palcoscenico circolare al centro della sala, abbracciato dal pubblico disposto nei palchetti, coronato da una serie di fiori filiformi, ampolle, bottiglie e cilindri trasparenti, e dal quale viene su, innalzando i personaggi e la loro verità, un letto d’amore che, inesorabilmente, diviene catafalco, dopo essere stato adibito a balcone e poi a bottega del frate.

Foto: Teatro Sannazaro

Il pubblico entra in sala sulle prime battute suonate da Grieco, mentre giungono sul palcoscenico i primi attori fumando, bevendo dalle ampolle/bottiglie, ingurgitando pasticche. In scena per un po’ anche Sicca, divertito, a fare la spola tra piattaforma e foyer sulla musica sincopata che avanza imperterrita, prima di lasciare poi soli gli attori a compiere il consueto rito teatrale. Non è il classico prologo annunciatore dell’avvenire a far da apripista, anzi il suo contrario: «La gente non si è stancata di ascoltare sempre la stessa storia?».
In chiave after party, sembra di entrare nel vivo del processo creativo che ha generato lo spettacolo: «Perché ancora Romeo e Giulietta?», «Perché ne siete ancora attratti?» e, come recitano anche le note di regia, «Ogni festa finisce con un funerale».
Si è subito immersi nella concezione della versione Sicca/D’Errico, che vuole lasciare da parte – ma neanche tanto, si scoprirà poi – la trama conosciuta, per approdare subito all’indagine di tutti gli assunti laterali. L’addio, in primis. Quell’addio che i due amanti si scambiano prima che Romeo parta per Mantova e che per Giulietta è già presagio di morte. Di quella morte figurata che pugnala lo stomaco quando due innamorati si separano, che rischia di sfociare in tragedia reale quando, invece, i due, come i nostri protagonisti appena adolescenti, sono mossi da capriccio e sconsideratezza, da un insensato desiderio di possessione dell’altro, di bisogno.

La possessione. È questo il secondo assunto laterale sgranato dalla rilettura drammaturgica della coppia partenopea. Ci si arriva dopo la famosa scena del balcone, ricostruita al centro della piattaforma con il solo aiuto di una ringhiera. Leggera e languida, Clara Bocchino restituisce una Giulietta trasognata e testarda, che maledice le discriminazioni sociali che portano il suo e il cognome del volubile Romeo, atletico e frenetico nella coerente interpretazione di Francesco Aricò.
Fedeli entrambi nella ricostruzione di due personaggi infantili impegnati a consumare «una festa troppo veloce» e, proprio per questo, ancora incapaci di far festa, i due credono di vivere e provare un sentimento libero. L’interpolazione drammaturgica a questo punto, recitata in maniera corale, è chiara: «Un sentimento è libero se è un desiderio. Se è un bisogno, no». Inevitabile è la distanza dal testo originale: «Io non sono Romeo» e «Io non sono Giulietta» recita il gruppo, condannando la tossicità degli amori possessivi e bisognosi.

Foto: Teatro Sannazaro

Rimbomba duro e violento l’anatema più addolorato dell’intero dramma, intrecciato nelle voci di tutti gli attori ad amore suggellatosi, ad annunciare la morte della libertà: «La peste a tutt’e due le vostre famiglie».
Etereo il Mercuzio in scarpette da punta (la prima battuta che Shakespeare fa pronunciare a Mercuzio è proprio «Gentile Romeo, vogliamo che tu danzi»; «Voi avete / Scarpine da ballo dall’anima sottile», gli risponderà l’amico) di Marialuisa Bosso, impegnata con tutto il suo corpo in una prova sublime e convulsa dal marcato carattere androgino; duale e liminale, in bilico tra maschile e femminile, tra libertà e ribellione, tra sogno e veglia, la Bosso consegna l’emblema della spregiudicatezza shakespeariana con appassionata energia nel duello a morte con il capriccioso e testardo Tebaldo (anche per Dario Rea una prova d’abilità e resistenza, malmenato nel corso della festa precedente da un violento zio Capuleti impersonato all’unisono da D’Errico e Roccasecca, impegnati tenergli ora un piede ora una gamba, ora gli tirano un calcio ora un pugno).
Sotto gli occhi di Romeo e del timoroso Benvolio, a cui presta la voce tutto il dinamismo di Emanuele D’Errico, Mercuzio poggia per l’ultima volta i piedi in terra. Muore la personificazione della libertà, ma prima maledice e sentenzia, rivolto all’immaturità naïve di Romeo: «La peste a tutt’e due le vostre famiglie!», «Non si muore d’amore!».

Foto: Teatro Sannazaro

Il lutto è il terzo assunto laterale che, emerso dal testo, prende vita in forma di riflessione sulla piattaforma. «Alla morte siamo preparati da che siamo nati», afferma D’Errico/Benvolio; ma alla morte improvvisa, no. Alla morte improvvisa, come può esserla quella del figlio o dell’amico, ci si sente analfabeti, persi.
Il contrasto tra vita e morte dà spunto a Frate Lorenzo per cominciare a sciogliere, insieme alle sue piante, la sua regia nel percorso dei due innamorati. Francesco Roccasecca è un Lorenzo-coro che ora danza insieme ai suoi amici, ora si estromette dal gruppo raggiungendo la console di Grieco per vedere meglio, per vedere tutto, a cui sono affidati i brani più retorici e commossi; ma con una distorsione meccanica della voce è anche il Principe che esilia Romeo da Verona.
Le piante che Lorenzo ci presenta sono tutti i vizi che ottundono la capacità di riconoscere le emozioni: la superba, la lussuriosa, l’avaro. Sapientemente, dosa e soppesa con cautela ogni singola parola.
Il lutto, scomposto in una posa fisica che man mano, supplice, si accascia a terra disperata, passa dalla limpidezza della voce alla sua rottura, invece, nell’interpretazione della Balia di Teresa Raiano, la quale, senza scomparire, tiene testa all’intera compagnia che, all’unisono, interpreta i genitori snaturati di Giulietta, fino a restituire, grave, tutto il dolore di una madre che perde la figlia, rompendosi in un agghiacciante urlo di dolore.

Edonismo e nichilismo. L’ultima riflessione nasce al centro della pedana-palcoscenico: dal loro letto di morte, Romeo e Giulietta (l’uno morto per iniezione di un veleno, l’altra per embolia dovuta all’iniezione dell’alito dell’amato) afferrano le mani dei propri compagni. La continua ricerca del piacere è nulla. L’estasi sarà raggiunta solo quando sensi, anima e passione troveranno il giusto baricentro. Allora, la festa non bisognerà più cercarla: staremo e festeggeremo, avendo già festeggiato e consapevoli che continueremo a farlo.

ALLA FESTA DI ROMEO E GIULIETTA
di Shakespeare / D’Errico / Sicca
regia Benedetto Sicca
con Francesco Aricò, Clara Bocchino, Marialuisa Bosso, Emanuele D’Errico, Teresa Raiano, Dario Rea, Francesco Roccasecca
in scena Tommy Grieco live set
musiche Tommy Grieco
scenografia Luigi Ferrigno
costumi Giuseppe Avallone
disegno luci Luigi Della Monica
produzione Tradizione e Turismo – Centro di Produzione Teatrale – Teatro Sannazaro

Teatro Sannazaro, Napoli | 13 gennaio 2023