RENZO FRANCABANDERA | È tornato in scena per qualche giorno a Trieste, nella sala Bartoli del Teatro RossettiQuell’anno di scuola, l’adattamento per il teatro che il regista Alessandro Marinuzzi ha tratto da un breve romanzo del 1929 di Giani Stuparich, e che vede in scena un gruppo di otto giovani interpreti, provenienti dal progetto Teseo, la scuola di formazione del Teatro Stabile del Veneto, cui si aggiunge l’esperienza di due attori dello Stabile del Friuli Venezia Giulia per ruoli di maturità anagrafica.

ph Serena Pea

All’ingresso in sala il pubblico li trova a dare il benvenuto come se si stesse entrando in una festa in casa, di stampo adolescenziale, quelle un po’ vintage, con la musica messa al giradischi.
Tutti loro (Giulia Ester Galazzi e Riccardo Maranzana del TSFVG e  i giovani Meredith Airò Farulla, Riccardo Bucci, Davide Falbo, Chiara Pellegrin, Emilia Piz, Gregorio Righetti, Andrea Sadocco, Daniele Tessaro del TSV), sebbene in abiti di scena che riportano a un secolo fa (accurato e senza fronzoli il lavoro su elementi scenici e costumi di  Andrea Stanisci), sono a chiedere al pubblico che entra in sala come si va, se si è in compagnia: ci invitano a prender posto.
Persino il tradizionale rito del “merda! merda! merda!” con le annesse palpatine portafortuna al fondoschiena, che di solito avviene dietro le quinte, qui viene fatto sotto gli occhi degli spettatori.
La recita inizia in un vorticoso passa parola con cui, un po’ tutti, frase dopo frase a turno, portano la narrazione in un fine estate di inizio Novecento nella geografia giuliana.
Ambientato nella Trieste del 1909, la vicenda racconta di una classe, e potrebbe essere un po’ come Cuore, il libro di De Amicis, ma con alcune differenze sostanziali.
Intanto l’anagrafe dei protagonisti che in questo caso è più matura, di una adolescenza che si avvia verso la maturità. In secondo luogo la scrittura di Stuparich, che non solo non ha intenti moraleggianti, ma che anzi, rivela ancora oggi una grandissima modernità, perchè riflette i turbamenti stessi dello scrittore, la sua capacità di problematizzare e scandagliare la psiche nelle relazioni raccontando un territorio e la sua storia.
Di ispirazione autobiografica, il libro, da cui nel 1977 era stata tratto anche un film diretto da Franco Giraldi alla cui realizzazione Marinuzzi stesso da giovane aveva collaborato, racconta di una ragazza Edda Marty, che ottiene per la prima volta, sostenendo un esame, l’accesso all’ottavo anno del ginnasio, passaggio obbligato per accedere agli studi universitari e conquistarsi libertà e indipendenza: è l’incarnazione di un nuovo ideale femminile, capace di autonomia e anche ribellione all’ordine sociale costituito.
La storia, peraltro, a conferma dell’ispirazione autobiografica del racconto, ha un fondamento storico documentato e la giovane si chiamava Maria Prebil.
Un secolo fa le donne non avevano neanche il diritto di voto (fu dato nel 1946) e l’analfabetismo femminile era altissimo, con percentuali che ai tempi in cui è ambientato il romanzo andavano oltre il 50%, una donna che otteneva l’accesso ad una classe liceale faceva sicuramente scalpore.
I tormenti di un’epoca si sommano, nella scrittura di Stuparich a quelli sentimentali: tutta la classe poco alla volta si innamora di questa presenza magnetica e caparbia, una donna che già da giovane è costretta a sentire la sofferenza emotiva del lutto in famiglia e che da questo ricaverà una capacità e una determinazione particolarissima nel fronteggiare  a testa alta le sfide che la storia con la s minuscola e quella con la S maiuscola la porteranno a vivere.

ph Serena Pea

Il racconto (che è nel catalogo Quodlibet), di suo già avvincente per scrittura, conferma la profondità di un autore oggi forse un po’ dimenticato, ma capace di sottigliezze psicologiche davvero  raffinate.
La scelta del filo conduttore dell’adattamento (di Marinuzzi e Davide Rossi) non si slabbra in rivoli inutili, ma resta legato in modo chiaro alle vicende.
La regia ha la capacità di creare nel cuore dello spettacolo un pathos che costringe la sala ad un silenzio attento, quasi religioso, coniugata all’abilità di gestire tanto il recitato quanto il movimento scenico.
È stato dunque conseguente a questo lavoro preciso e corale il passaparola che ha garantito a queste ulteriori repliche offerte alla città di Trieste il continuo tutto esaurito, e invero l’augurio è che le repliche possano continuare e non siano solo costrette nella geografia del Triveneto, perché la coproduzione fra TSV – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia è la pregevole trasposizione di un Bildungsroman, nutrita da una recita corale generosa, fatta senza bisogno di un primo attore, proprio perché l’estrapolazione drammaturgica favorisce la dinamica corale.

La scenografia è assai semplice ma curata: il lato sinistro della scena è dominato da una pedana a gradoni su cui sono disposti i banchi, la classe, quella in cui si svolge ampia parte della vicenda. Sul fondo di questo lato, dietro la pedana, un armadietto la cui funzione  è perlopiù quella di un paravento per permettere alcuni cambi. Il lato destro invece è più vuoto e sull’estrema destra occupato da un lungo tavolo obliquo. Un altro armadietto a L sul fondo destro riempi l’angolo. Su questo lato tutta l’altezza è presa da un telo semi trasparente su cui avvengono i giochi luce che aiutano, insieme ai fari, a creare e comporre le atmosfere visive, con una palette di colori molto ampia ma che gioca sui colori primari.

ph Serena Pea

Dopo una prima parte in cui il fuoco della narrazione gioca sull’elemento goliardico, per permettere ai personaggi e all’ambientazione di essere descritti, la seconda parte si concentra attorno all’elemento fascinatorio con cui la ragazza, pur senza compiere, di suo, alcun passo in questa direzione, arriva a far infatuare di sè quasi tutti i componenti della classe (Momi, Pasini, Antero, Mitis, tutti assai ben interpretati dal gruppo di giovani ma solidi interpreti).
Con uno di loro, Antero, il legame si stringe e pare davvero essere destinato a coronare, in una relazione stabile, il sentimento pulito, cristallino che i due vivono. Ma qui arriva il colpo di scena che sconvolge non solo la vicenda sentimentale ma un po’ tutte queste esistenze,  facendole passare in un batter d’occhio dall’adolescenza all’età adulta, cosa cui saranno ulteriormente costretti dall’incombere delle vicende storiche del tempo, su cui lo spettacolo si chiude (in realtà fu l’adattamento televisivo a portare dal 1909 al 1914, a ridosso della Grande Guerra il tempo dell’azione, per enfatizzare il sentimento politico irredentista della Trieste di quegli anni).
La creazione si fonda su un’analisi testuale lucida che in un suo commento Roberto Canziani ha correttamente definito ronconiana, perché costruita su una modalità di uso della parola usata più volte dal Maestro, che  gioca sull’ambiguo del discorso diretto indiretto.
Il discorso indiretto nel testo del romanzo diventa, in scena, battuta che il personaggio proferisce direttamente: quando il testo dice “lui era…“ e poi “lei era“,  non c’è un narratore a dire entrambe ma ciascun personaggio la recita, riferendosi a se stesso in terza persona e così si raggiunge l’obiettivo di poter mantenere integra la testualità romanzata, garantendo la polifonia.
Ciò peraltro consente in modo corale agli interpreti, per la maggior parte giovani e provenienti dalla scuola del Teatro Stabile del Veneto, di poter esprimere il proprio talento e di mettersi alla prova con maturità: è quello che tutti fanno in maniera pulita, garantendo un equilibrio non ammalato da primadonnismo istrionico.
Ci sono le musiche, certo: c’è il valzer Francois di Karasinki, quello di cui era innamorato Kantor, facendone la colonna sonora de La classe morta, e forse scelto proprio per questo, in una relazione fra titoli e destino.
Alcuni altri inserti sonori sono invero assai tenui perché il resto è costruito attorno a un filologico rispetto della parola, dell’elemento testuale, come nucleo attorno al quale costruire lo spettacolo, che proprio per questa limpidezza onesta, si distingue con un’eleganza invero ormai rara da incontrare a teatro.

È un lavoro di tale misura e grazia, con alcune pregevoli invenzioni sul movimento scenico ( come quando i banchi di scuola e la pedana diventano la montagna per una scalata di cui si parla nel racconto) che il pubblico finisce per essere catapultato dentro la vicenda in forma piena e totale: davvero bene tutti gli interpreti capaci di utilizzare con maturità la mimica e il gesto.
Tutto è fatto bene e non c’è nulla fuori posto: c’è il comico e il drammatico, non ci sono ammiccamenti inutili al pubblico, con cui le relazioni dirette si esauriscono in quell’iniziale accoglienza, terminata la quale, progressivamente, cala un igienico e quanto mai necessario velo fra il palcoscenico e la platea, evitando inutili rotture della quarta parete abusate a teatro e che nella quasi totalità dei casi non hanno alcuna concreta rilevanza ai fini della resa scenica.
Quell’anno di scuola è uno spettacolo appropriatamente tradizionale, di quelli che si vedono non frequentemente per qualità della regia e dell’interpretazione. Il lavoro merita: bene ha fatto la direzione artistica del Teatro Rossetti affidata a Paolo Valerio, a riproporlo dopo una prima serie di repliche nello scorso autunno (anche per soddisfare una ampia domanda del pubblico), e bene farebbe qualsiasi teatro a programmarlo, perché vale.

 

QUELL’ANNO DI SCUOLA

elaborazione drammaturgica Alessandro Marinuzzi, Davide Rossi
tratto da “Un anno di scuola” di Giani Stuparich
editore Quodlibet per gentile concessione di Nefertiti Film
progetto drammaturgico e regia Alessandro Marinuzzi
con Giulia Ester Galazzi e Riccardo Maranzana (Compagnia Stabile del Teatro Stabile del Friuli Venezia) e Meredith Airò Farulla, Riccardo Bucci, Davide Falbo, Chiara Pellegrin, Emilia Piz, Gregorio Righetti, Andrea Sadocco, Daniele Tessaro (Compagnia Giovani -progetto TeSeO- del Teatro Stabile del Veneto)
elementi scenici e costumi Andrea Stanisci
assistente alla regia Davide Rossi
fotografie di scena Serena Pea
produzione TSV – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia