VINCENZO RICCIO | «Nevica. E chi l’ha mai vista la neve? E chi le ha viste mai le stelle? E chi l’ha visto mai il sole?».

Sabato 2 luglio, nell’ambito del Campania Teatro Festival 2022 – ancora, quest’anno, con la direzione artistica di Ruggero Cappuccio – il Rione Sanità ha ospitato nel suo Vicolo della Cultura (via Montesilvano) lo spettacolo-festa ‘A voce d’ ‘o vico di Putéca Celidònia insieme ai bambini del laboratorio teatrale.

Insieme a Opportunity APS, la Compagnia ha effettuato lavori di rivalutazione culturale sul territorio insediando in quello che era un vicolo stretto e buio delle edicole culturali con biblioteche a cielo aperto, murales di esponenti di spicco della cultura partenopea e codici QR rimandanti a un podcast che racconta la storia del Vicolo, registrato dai bambini del quartiere insieme ad attori e artisti filantropicamente vicini al progetto (tra gli altri, Sonia Bergamasco, Giobbe Covatta, Marco D’Amore). Lo spettacolo presentato lo scorso sabato è stato organizzato per essere recitato sui balconi di due palazzi dirimpettai, in uno dei quali le due realtà gestiscono due locali confiscati alla camorra. Su ogni balcone, un paio di microfoni in filodiffusione.

Putéca Celidònia nasce nel 2018 in seguito alla formazione dei sei ragazzi che la costituiscono alla Scuola del Teatro Stabile di Napoli (Emanuele D’Errico, Dario Rea, Clara Bocchino, Marialuisa Diletta Bosso, Teresa Raiano e Umberto Salvato). Subito hanno sentito la necessità di affermarsi artisticamente sui palcoscenici della regione (e non), e di seguire anche una linea sociale attraverso l’attivazione di progetti rivolti alla condivisione della cultura e del bello. Nel loro curriculum due spettacoli prodotti e interpretati (Dall’altra parte | 2+2=? e Felicissima jurnata, sabato 9 luglio a La Corte Ospitale) e numerosi progetti di educazione teatrale (T’Appò Munno?! presso l’Ipm di Nisida, Komorebi con gli ex-richiedenti asilo di Caserta, Non c’è differenza tra me e il mondo e la prima edizione di ‘A voce d’ ‘o vico con bambini, attori e artisti quali Eugenio Bennato, Antonella Morea e Wanda Marasco).

Un'edicola culturale al Vicolo della Cultura
Una delle edicole culturali del Vicolo della Cultura (via Montesilvano) nel rione Sanità a Napoli, foto di Claudia Scuro

Spenta l’illuminazione elettrica del vicolo, dall’alto dei balconcini i bambini, muniti di torce, simulano una tempesta mentre cantano una sorta di nenia («Seminai semi», ripetono), e così comincia una storia semplice ma evocativa. Giacomino (Jack) arriva inspiegabilmente nella casa dell’orchessa (Antonella Morea, pronta nella sua esperienza a giocare sapientemente col pubblico e col piccolo) chiedendo cibo e ristoro. L’orchessa è tanto gentile da ospitarlo, e, a conoscenza fatta, tra i due intercorre un serrato scambio di battute sull’assenza del Sole nel vicolo. La satira è presto fatta all’istituzione Politica, tanto disimpegnata nel territorio che pare essere entità sconosciuta. Giacomino, però, con l’aiuto della donna e dei suoi amici, trova il giusto coraggio per salire fino alla cima dell’albero che divide i due palazzi riuscendo a diramare le nuvole che impediscono al Sole di illuminare e riscaldare la strettoia.

L’importante scenografia (di Rosita Vallefuoco e Mauro Rea insieme agli stessi bambini) vede al centro del vicolo un albero di corda di canapa intrecciata, lungo fino al terzo dei quattro piani dei due palazzi, con foglie d’oro pendenti e una chioma di nuvole fatta con tremila palloncini bianchi: funzionale alla drammaturgia, che si sviluppa intorno alla fiaba di Jack e il fagiolo magico, diventa inoltre scenografia dinamica nel momento in cui, sul finire dello spettacolo, i palloncini vengono lasciati cadere sulla testa degli spettatori.

Spettatori con scenografia albero e nuvole
Tra i due palazzi di via Montesilvano, l’albero realizzato dai bambini insieme a Rosita Vallefuoco e Mauro Rea. Sul balconcino in alto a sinistra, Antonella Morea. Foto di Campania Teatro Festival

Le scelte, nell’eterogenea drammaturgia e regia di Emanuele D’Errico, giustappongono momenti performativi diversi tra pezzi monologici recitati dai ragazzi della Sanità, spesso reiterati in un’insistente provocazione che sciorina le loro paure e ansie, pezzi musicali, e monologhi di rassegnata illusione destinati invece agli attori della Compagnia che incarnano le voci degli abitanti più maturi del vicolo: l’eterea Bosso dal suo balconcino ricorda una sventurata vergine, abito bianco, velo a coprirle il viso e megafono a indicare l’abbandono del suo personaggio, immobile Urlatrice anelante Sole e giustizia che nessuno riesce a sentire; Teresa Raiano, ironica e sbrigativa in grembiule da cucina e ventaglio alla mano, offre una smorzante comicità fatta di intrecci di parentele per risalire all’ultima persona che anni orsono ha visto il Sole, in equilibrata compensazione alla gravità della precedente; e Umberto Salvato, pragmatico garante dell’interesse morale e della Verità del vicolo, ironico e pungente al contempo.

Personaggio invisibile, vivo in realtà in ogni singola altra voce, dall’intonazione calda e rassicurante (Dario Rea) è lo stesso Vicolo, al quale è affidata ora la narrazione degli eventi, ora il commento amaro. La sola voce, in più, a coinvolgere il pubblico nella sua fiacca inflessione – ma, purtroppo, è solo un monito iniziale. Tuttavia, l’intonazione stanca è avvolgente e omogenea sull’intera traiettoria nella filodiffusione installata nel vicolo in modo permanente con quest’evento.

Dislocati sui sei balconcini dirimpettai, il gruppo dei bambini incarna un’unica voce (ora all’unisono, ora sfalsata), pronta però a farsi carico delle istanze della propria generazione e, soprattutto, della propria condizione di inascoltati. Incorniciano, con voci ben impostate e mai deboli, l’intera vicenda che intercorre tra Giacomino e la gigantessa rivolgendosi a un Altro assente: l’adulto, la giustizia forse. Si lasciano andare ai loro ricordi più intimi concernenti il vicolo fino a scoppiare icasticamente il palloncino che ognuno stringe tra le mani e invocare subito il Sole, dando il via al canto della Morea – un Jesce Sole intonato a cappella che suona come laica preghiera, richiamando alla memoria la fortunata Gatta Cenerentola di Roberto De Simone (1976) – e all’azione centrale tra questa e Giacomino.

La parola dell’Astronomo Viandante, in seguito, è la più rincuorante. Forestiero pronto all’aiuto, Clara Bocchino è ferma e determinata, nonostante sia quasi rotta nella voce, cauta a contrarre nel corpo il dinamismo della visione e della riflessione, decisa nello snocciolare, quasi meccanicamente, parola dopo parola il suo auspicio di fare communitas prendendo a metafora un’utopistica stretta di mano tra il Sole e la Luna – resa scenicamente con due palloncini illuminati di giallo e bianco che s’incontrano in un’eclissi a metà strada sulla carrucola di uno stendibiancheria che va da un balcone all’altro dirimpetto. Giacomino e i bambini capiscono il segreto per sciogliere il nuvolone e per la prima volta si riconoscono e incitano a vicenda per fare gruppo e raggiungere la cima della pianta. Le luci (Giuseppe Di Lorenzo), tenute finora su toni piuttosto bui e violacei durante i monologhi più gravi, o focalizzanti e bianche per i più ironici e vivaci, dipingono l’albero e le sue nuvole di giallo. Queste planano leggere sugli astanti, che tornano a partecipare attivamente alla comunione, e il sole illumina il vicolo.

'A voce d'o vico - Putéca Celidonia al Vicolo della Cultura nel rione Sanità a Napoli
‘A voce d’ ‘o vico, foto di Claudia Scuro

Nel complesso il ritmo è piuttosto svelto; lo spettacolo non va oltre i 45 minuti, ma è ben calibrato con un rapido alternarsi di tempi lenti e serrati – specialmente all’inizio – fino ai due momenti centrali: lo scattante confronto tra Morea e Giacomino e l’attento e ponderato ritaglio della Bocchino.

Nota positiva anche per i sottofondi musicali elettronici dalle inflessioni ambientali (Tommy Grieco), che pure nell’immersività data dalla filodiffusione hanno saputo enfatizzare senza risultare insistenti i momenti più decisivi dell’azione, quali il monologo dell’Astronomo e l’ascesa di Giacomino, o quello più corale dei bambini, incastonato fra i due appena citati, al momento di declamare la solitudine di cui si sentono vittima («Mi sentite?», gridano disperati).

Rilassàti, passata la prova del Festival, i ragazzi abbandonano i costumi di scena da perfetti e puliti scolaretti (camicia e bretelle, pantaloncini e candidi vestitini) di Giuseppe Avallone e Patrizia Visone, messi su insieme anche alle donne del quartiere, e ritornano nelle quotidiane t-shirt colorate a sgomberare e raccogliere, insieme alle famiglie, ciò che hanno lasciato.

Alla messinscena avrebbe dovuto partecipare anche il gruppo musicale Azul, assente però per motivi legati al Covid. Il rapper Anastasio, invece, ha trascinato la platea a fine spettacolo in un concerto fresco e rigenerante, facendo danzare al ritmo dei suoi beat giovani e meno giovani.

Spettatori nel buio del Vicolo della Cultura
Gli spettatori, volti ai balconcini in alto, nel buio del Vicolo della Cultura, foto di Campania Teatro Festival

Il vicolo stretto non ha permesso altre soluzioni che la fruizione dello spettatore dal basso della strada. L’espediente di recitare sui balconi, funzionale per questioni di spazio, diventa allora anche allegorico se il messaggio che passa è quello di riuscire a trovare gli strumenti – l’unità, in questo caso – per scavalcare una pianta intorno alla quale lo spettatore sta senza essere capace di far niente. Può soltanto guardare il Sole farsi strada sulle nuove generazioni.

Certamente, sulla rappresentazione e la recitazione ha più valore il laboratorio: opere d’arte a parte, lo spettacolo è un buon prodotto performativo che ha saputo coinvolgere tanto i ragazzi quanto il vicinato, permettendo di gettare le basi per l’affermazione di un’identità collettiva che, nel suo farsi, lascia riscoprire ad ognuno la propria individualità. Si va generando così una communitas dalle elevate potenzialità. La ritualità dell’evento-festa, infatti, alimenta la stessa coscienza della comunità generando quell’autopoiesi che permette di crescere, sviluppare intelligenza emotiva e concedere dunque la rivalutazione e l’integrazione partecipativa dei più nascosti della città.

‘A VOCE D’ ‘O VICO
un progetto di Putéca Celidònia
con le bambine e i bambini del Corso di Teatro Inputéca Recitando
e con Clara Bocchino, Marialuisa Diletta Bosso, Teresa Raiano, Dario Rea, Umberto Salvato
con la partecipazione di Antonella Morea e il gruppo musicale Azul
con la partecipazione straordinaria di Anastasio
testi e coordinamento artistico Emanuele D’Errico
scenografia Rosita Vallefuoco
realizzazione scene Mauro Rea con le bambine e i bambini del Corso di Scenografia Inputéca Scenografando
costumi Giuseppe Avallone
realizzazione costumi Patrizia Visone con le donne del Corso di Costume Inputéca Cucendo
musiche Tommy Grieco
luci Giuseppe Di Lorenzo
fonico Alessandro Innaro
in collaborazione con Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
si ringrazia #Opportunity