ELENA SCOLARI | Joseph Roth è nato nel 1894 nei pressi di Brody, piccolo centro che allora si trovava ai confini dell’impero austro-ungarico e oggi fa parte del territorio ucraino. Nel 1914 si trasferisce a Vienna dove studierà, la sua vita si dividerà poi principalmente tra Germania, Paesi Bassi, Francia, dove morirà nel 1939, a soli 45 anni.
Il suo racconto La leggenda del santo bevitore esce postumo proprio nel 1939, è nota la versione cinematografica di Ermanno Olmi (Leone d’oro a Venezia nel 1989) con Rutger Hauer nel ruolo del protagonista, Andreas. Si tratta di un testo in parte autobiografico, la storia di un vagabondo che vive a Parigi, sotto i ponti sulla Senna negli anni ’30, che riceve, inopinatamente, la somma di duecento franchi da uno sconosciuto che lo ha avvicinato.  Unica richiesta la promessa di restituirli con un’offerta presso la Chiesa di Batignolles, alla piccola Santa Teresa di Lisieux. Andreas Kartak è un uomo onesto e si farà un punto d’onore dell’estinzione del debito, ma sarà continuamente ostacolato da una catena di eventi che, tra un Pernod e l’altro, gli impediranno di chiudere il cerchio.

La trasposizione teatrale per la regia di Andrée Ruth Shammah – in scena al Teatro Franco Parenti di Milano fino al 19 febbraio – nacque nel 2006 con Piero Mazzarella e oggi  vede Carlo Cecchi nei panni dello sdrucito vagabondo, al bancone di un bar, raccontare la vicenda alcolica del clochard al barista del locale (Giovanni Lucini). Il narratore passa quasi impercettibilmente dalla prima alla terza persona, Andreas è infatti raccontatore e raccontato.
E Andreas è anche Roth, il quale pure ha condotto una vita piuttosto raminga e ha spesso trovato consolazione, divertimento ed ebbrezza di vita nell’alcool. (E quando si sentì male in un bistrot, pochi giorni prima di morire, venne soccorso proprio dall’amico barista).
Le sensazioni di Kartak sono lattiginose come il Pernod, un liquore che nasce per essere annacquato e diluito a piacere, così come si cerca di allungare i momenti belli, disperdendone il ricordo il più lentamente possibile.

Nella Sala A del Franco Parenti, stretta e lunga, il palco accoglie gli arredi di un piccolo bistrot, siamo all’interno, e la parete di fondo è l’esterno del bar, con la scritta CAFÉ sulla vetrata. C’è una seconda dimensione, creata davanti al proscenio (spazio scenico disegnato da Gianmaurizio Fercioni), con due tavolini e due assi di legno, lì un’avventrice in paltò marron (Roberta Rovelli) si siede e trova una copia del libro (l’edizione verde e attuale degli Adelphi tascabili), comincia a leggere a voce alta le prime righe e ci introduce nel racconto, che Cecchi prosegue dal suo sgabello al bancone con i piedi poggiati su una pila di giornali, quelli che i barboni usano come imbottitura perché si sa che tengono caldo. Narra la vicenda al barista come se la stesse scrivendo in quel momento, su un taccuino nero, penna in mano.
Cecchi è perfetto per rendere il profilo ironico di un uomo vecchio, pratico della vita ma ancora desideroso di sogni e che sa cogliere i piccoli misteriosi miracoli che gli vanno incontro come doni naturali, anche se di matrice letterariamente soprannaturale. La sua voce roca e un poco tentennante (come incertezze nel ricordo), il corpo insicuro che indossa gli abiti laceri con noncuranza (costumi di Barbara Petrecca), il timbro caldo e pungente come un Calvados, si attagliano benissimo a una figura non del tutto terrena e che rappresenta una categoria neorealista di amabili e distinti straccioni, in cerca di qualche ultima manciata di polvere d’oro.

La regia di Shammah sceglie di puntellare il racconto scenico con le due presenze citate, ma se il barista ha effettivamente un ruolo di contrappeso in quanto testimone dello sviluppo narrativo, la giovane donna che, di tanto in tanto, legge qualche riga dell’autore (anche un paio di note numerate), appare molto meno giustificata, così come poco motivati sono i suoi spostamenti da un tavolino all’altro.
La forza della Leggenda sta in chi la racconta, un personaggio sfuggente e fatto di una stoffa che si sfalda; l’andamento a parabola, nel suo essere chiaramente un apologo, non ha bisogno di puntelli esterni. Ecco perché i video che – in momenti apparentemente casuali – raddoppiano Cecchi e Roberta Rovelli, in differita, non donano senso all’apparato, mentre le proiezioni della pioggia o della neve sui vetri del bar, o dei boulevards di Parigi in bianco e nero, danno la sensazione del tempo, del clima vero e della vita che scorre fuori, delimitando meglio lo strano spazio della storia cui stiamo assistendo (suggestioni visive di Luca Scarzella e Vinicio Bordin).

Nei giorni della novella, Andreas inanella una collana di incontri fortuiti: un ciccione che gli offre lavoro per un trasloco, un ex compagno di scuola diventato calciatore di successo e che vive in un albergo (tutte situazioni instabili), la vanitosa donna amata in gioventù per la quale è pure finito in galera, un vecchio amico scroccone, le ragazze di un tabarin… una passerella che gli fa ripercorrere la vita in pochi giorni, senza sapere che saranno gli ultimi.
Kartak arriva sempre in ritardo alla messa per restituire il debito, gira intorno alla chiesa di Batignolles in attesa della successiva, in mezzo ci scappa sempre un aperitivo di troppo e alla fine sarà la piccola Teresa ad andare da Andreas, e quello che verrà saldato sarà il debito finale: il bevitore non è meno santo di lei.

LA LEGGENDA DEL SANTO BEVITORE

di Joseph Roth
regia Andrée Ruth Shammah
con Carlo Cecchi
e con Roberta Rovelli e Giovanni Lucini
spazio scenico disegnato da Gianmaurizio Fercioni
con le suggestioni visive di Luca Scarzella e Vinicio Bordin
luci Marcello Jazzetti
costumi Barbara Petrecca
produzione Teatro Franco Parenti

Teatro Franco Parenti, Milano | 4 febbraio 2023