RENZO FRANCABANDERA | Un fine settimana, quello conclusosi il 25 giugno alla Biennale, che ha ospitato eventi non solo negli spazi teatrali ma anche nella città, anche in ragione dei diversi progetti performativo-installativi voluti dalla direzione artistica per affiancare il programma di spettacoli serali. Le performance hanno avuto programmazione nel pomeriggio inoltrato in due diverse aree della città.

Per prima la visione di una creazione di Gaetano Palermo. Lo spazio è quello davanti al cancello che dà l’ingresso ai Giardini della Biennale.
Arriva sui pattini una giovane figura femminile, dal sembiante che trasmette inquietudine. Il suo volto appare quasi tumefatto, corroso da una bruciatura, una parrucca bionda posticcia. Dopo un piccolo riscaldamento iniziale incomincia a girare nel piazzale, interagendo con un cellulare, con cui si riprende. Lo appoggia qui e lì, si scatta dei selfie. È Rita Di Leo, il cigno, Swan. Il suo incedere è macchiato da insicurezze che la fanno cadere. Il vorticare continua fino a quando non iniziano ad arrivare colpi di arma da fuoco. Sembra venirne colpita, cade si rialza. Continua così per diverso tempo fra cadute, risalite sempre più faticose e dolorose, poi inizia a sgorgare del sangue dal suo bacino, qualcosa che ricorda il mestruo. Perde la parrucca, che rivela una testa calva, come quella di un malato oncologico. L’ultima è una ferita mortale.

Nell’atto di morire la donna rimuove la maschera di lattice che fino a quel momento l’aveva costretta, e che sembrava realistica tanto da non lasciare immaginare che sotto ci fosse un altro sembiante. Si rivela l’identità finale proprio nell’atto mortale. Il pubblico accoglie con calore la rappresentazione e in particolar modo la partitura fisica, faticosa, affidata all’interprete, pur connotata da una certa ricorsività insistita della drammaturgia fisica.

L’altra performance urbana ambientale scelta dalla direzione artistica di Biennale di Gianni Forte e Stefano Ricci è quella di Morana Novosel intitolata Fluid HorizonsSi tratta di un’installazione performativa urbana allestita in campo Santa Agnese. Qui una serie di strutture metalliche e di amplificazioni vengono messe a disposizione del pubblico che liberamente può accedervi. Nasce come esito di una frequentazione di una ventina di giorni circa della zona, periodo durante il quale l’artista ha potuto raccogliere una serie di tracce sonore e di memorie del territorio, sia di abitanti che di studiosi ed esperti di questa parte della città, che raccontano passato, presente e possibile futuro, fra cambiamento del connotato urbano e della forma sociale. L’avvento del turismo di massa ha snaturato i legami sociali per trasformare l’habitat metropolitano in un continuo flusso che, se per un verso arricchisce pochi, per altro fa perdere alla città qualsiasi specifica connotazione dell’essere abitata in modo coerente e continuativo. Una parte dell’installazione sonora ma anche oggettuale permette ai frequentanti di guardare il paesaggio attraverso binocoli, alla ricerca di uccelli e altri abitanti naturali, presenze non umane, che possono sfuggire all’occhio distratto e che invece diventano possibili protagonisti di questa narrazione.
Pur fra spunti interessanti, la creazione rimane invero un po’ slegata e la funzione si compatta intorno ad un’intenzione documentaristico-testimoniale che però rimane assai frammentata e di difficile riconduzione ad una suggestione unitaria. L’esito rimane fragile.

Due gli spettacoli proposti all’interno del programma ufficiale della rassegna. Il primo di Bashar Murkus and Khashabi Ensemble / Palestine, intitolato Milk, è ospitato al Teatro delle Tese all’interno dello spazio dell’Arsenale.
L’azione recitata comincia con un gruppo di donne, poco meno di una decina, che, emergono dal buio, dentro uno spazio scenico oscuro fatto di un tappeto nero diviso in rettangoli, dopo un’iniziale epifania affidata ad una immagine preludio con una sedia vuota e un manichino disposto per terra.
Nella scena iniziale appaiono le donne che tengono fra le braccia i manichini e li cullano come si cullano i figli. La scena prosegue con una metafora dell’allattamento: dai loro seni inizia a sgorgare copioso il latte, che scende bagnando le loro tuniche in modo inarrestabile.
Il tema dell’allattamento e del nutrimento unito al tema della perdita del figlio, della propria creatura, costituisce il filo conduttore di una creazione del tratto simbolico espressionista in cui le interpreti raccontano in forma gestuale l’esperienza della maternità, dalla nascita fino al drammatico commiato, alla separazione, naturale o costretta dei frangenti della vita, del figlio.


Dentro un quadro luci dei toni caldi, alcune scene chiave che si condensano intorno alla decostruzione del pavimento, i cui rettangoli vengono scomposti, rivelandosi materassi in lattice nero, che vengono spostati per essere accatastati sul fondo della scena, creando una sorta di piscina riempita di latte. In cima a questa montagna di materassini, prende vita una scena di gestazione, con una donna che dà la vita. Dall’ammasso di materassi sbuca un uomo che sembra uscire dal ventre della donna e che pian pianino comincia ad allontanarsi, allungando a dismisura il cordone ombelicale che lo lega alla genitrice, di diversi metri. L’uomo finisce nella pozza lattiginosa, dove nel seguito le donne sedute vengono omaggiate da questa figura filiale emblematica, di abbracci e saluti.
L’uomo, rescisso il suo cordone ombelicale, si muove follemente dentro la pozza, agitando la sua identità in questo mondo liquido, con schizzi e spruzzi che prendono un lungo tempo dello spettacolo, fino al finale drammatico in cui si immagina il suo morire, mentre i tappeti vengono spostati dal fondo al proscenio, diventando quasi una montagna che impedisce allo sguardo dello spettatore di osservare il fondale scuro. Le donne salgono in cima a questo paesaggio artificiale e dall’alto comincia una pioggia di latte che le travolge in un finale ad effetto.
Lo spettacolo che nasce all’interno di un gruppo di generose artiste interpreti, dirette dal regista palestinese, sicuramente porta con sé una potenza simbolico narrativa che incarna molte drammatiche storie di quel territorio.
Dal punto di vista meramente artistico e con lo sguardo dentro i nostri canoni estetici, lo spettacolo rimanda a un immaginario femminile piuttosto stereotipato e ormai d’antan, che si risolve nel ruoli familiari. Dal punto di vista di una macchina scenica, invece, non può non considerarsi come l’ingombrante smontaggio del pavimento da riposizionare al fondo scena e poi spostare ancora, introduce nella creazione un tempo lunghissimo che la dilunga immotivatamente in azioni ripetute e senza che la regia riesca ad accomodare l’idea scenica ad una necessità drammaturgica reale.

Si arriva poi all’ultimo spettacolo. Siamo in una delle sale d’armi dell’Arsenale, un piccolo ambiente capace di ospitare un centinaio di spettatori.
Qui si porta davanti a noi un attore in jeans e maglietta bianca: è Boris Nikitin per il suo Versuch über das Sterben.
Ha in mano una ventina di fogli dattiloscritti, che comincia a leggere con una modalità non enfatica e che già incorpora una chiara intonazione del contenuto poetico.
A conti fatti sarebbe riduttivo definirlo un reading.
Le luci non sono piene, c’è un’atmosfera soffusa ad accogliere questa storia.
L’attore non fa grandi giri di parole e spiega subito come il cuore del racconto sia la narrazione degli ultimi mesi di vita del padre, in particolare quelli intercorrenti fra la scoperta di una malattia degenerativa, e la sua dipartita. Di mezzo le scelte sulla possibilità di morire prima, ricorrendo a una forma di induzione assistita. L’uomo non aveva sopportato la diagnosi, da fervente sportivo e uomo dinamico: pensarsi rapidamente impedito nell’autonomia, nel movimento, nel fare da solo, l’aveva subito portato a considerare tale possibilità.

Lo spettacolo è il racconto di come la relazione umana abbia poi portato a spostare nel tempo la decisione, dando nuovo senso sia alla vita, nella sua parte inferma, che alle relazioni umane sottostanti, capaci di spingere l’uomo a voler regalare più tempo possibile a tutto questo, pur accettandone il carico di sofferenza. E nella sua semplicità, Nikitin unisce una drammaturgia assai ben scritta a una naturalezza fatta di pochi gesti, pause e silenzi
Tutto si compie in modo rotondo e ed efficace, tanto da lasciare il pubblico completamente partecipe  del fatto emotivo, quasi ce l’avesse raccontato una persona a noi conosciuta. L’effetto della semplicità con cui la storia viene offerta gli spettatori capace comunque di generare pathos è la classica dimostrazione di come spessissimo al teatro bastino una buona storia e un buon interprete per darsi in modo potente, e che non servono complesse scenografie per arrivare ad emozionare.

 

SWAN

Di: Gaetano Palermo
Con: Rita Di Leo
Disegno sonoro: Luca Gallio
Assistenza e cura: Michele Petrosino
Prosthetics: Crea FX
Con il supporto di: Casa della Cultura Italo Calvino; h(abita)t – Rete di spazi per la danza; Associazione QB Quanto Basta
Produzione: La Biennale di Venezia
Nota: Vincitore del Bando Biennale College Teatro Performance Site-specific (2023)
Durata / Anno: 40’, 2023 (prima assoluta)

FLUID HORIZONS

Concezione e regia: Morana Novosel
Composizione e disegno sonoro: Bojan Gagić
Architettura e scenografia: Ana Dana Beroš
Si ringrazia: Luka Jerković, Tana Mažuranić, Vanja Novosel per l’assistenza durante la fase creativa
Produzione: La Biennale di Venezia
Nota: Vincitrice del Bando Biennale College Teatro Performance Site-specific (2023)
Durata / Anno: 40’, 2023 (prima assoluta)


MILK

Un perfomance visiva di: Bashar Murkus e Kashabi Ensemble / Palestine
Ideato e diretto da: Bashar Murkus
Scenografia: Majdala Khoury
Musiche originali: Raymond Haddad
Drammaturgia: Khulood Basel
Disegno luci e direzione tecnica: Muaz Al Jubeh
Con: Salwa Nakkara, Reem Talhami, Shaden Kanboura, Samaa Wakim, Firielle Al Jubeh, Samera Kadry, Eddie Dow
Assistente alla regia: Abed Al Jubeh
Assistente scenografia: Nancy Mkaabal
Assistente direzione tecnica: Moody Kablawi
Direttore di scena: Reema Assaf
Foto: Christophe Raynaud De Lage, Eid Adawi, Khulood Basel
Produzione: Khulood Basel – Khashabi Theatre 2022
Produzione internazionale e tournée: As Is Presenting Arts
Co-produzione: Festival d’Avignon, Théâtre des 13 vents Centre dramatique national de Montpellier, Théâtre de Liège, Romaeuropa Festival, Palestinian National Theatre El Hakawati (Gerusalemme), Culture Resource, Théâtre Jean-Vilar (Vitry-sur-Seine), Rosa Luxemburg Foundation, Moussem Nomadic Arts Centre (Bruxelles), Compagnie Théâtre Alibi – Fabrique de Théâtre (Bastia)
Durata / Anno: 80’, 2022 (prima italiana)


VERSUCH ÜBER DAS STERBEN

Di: Boris Nikitin
Regia, testo, interpretazione: Boris Nikitin
Organizzazione: Annett Hardegen
Aiuto regia: Annett Hardegen, Matthias Meppelink, Kathrin Veser
Produzione: It’s The Real Thing Studios
Commissionato da: Kaserne Basel
Con il supporto di: Theatre/Dance Committee of the Cantons of Basel-Land and Basel-Stadt
Durata / Anno: 55’, 2019 (prima italiana)