ELENA SCOLARI | Le predizioni portano guai, a teatro. Lo sa bene Macbeth, cui le tre streghe hanno divinato il suo futuro regale omettendo ad arte il prezzo da pagare per ottenerlo. Il drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de la Barca, nato a Madrid nel 1600 (solo 16 anni prima che Shakespeare morisse), ha appioppato un vaticinio nefasto al protagonista di La vida es sueño, Sigismondo: re Basilio, alla nascita del figlio (la madre è morta dandolo alla luce), ha la pessima idea di mettersi a leggere le stelle, le quali – a sua interpretazione – dicono che l’erede sarà un sovrano dispotico e tirannico, e così decide di rinchiuderlo in una torre sperduta tra le montagne. La pedagogia del Siglo de oro era un poco approssimativa e non contemplava il libero arbitrio in pagella.
Il ragazzo cresce in cattività fino a quando un giorno una fanciulla vestita da uomo (quante se ne incontrano in commedie e tragedie!) per ragioni che si sveleranno più avanti, giunge alla torre insieme al suo servo, sono Rosaura e Clarino; sentono rumore di catene e grida, si avvicinano alla fonte dei suoni e scorgono Sigismondo incatenato e vestito di pelli animali.
Il prigioniero, ignaro di essere ascoltato, pronuncia un monologo splendido in cui si domanda, sofferente, quale delitto abbia commesso oltre all’esser nato, come tutti: perché l’uccello può volare appena ha le ali salde e io che ho più anima ho meno libertà? Perché io che ho maggior istinto di una belva ho meno libertà? Perché il pesce può misurare l’enormità dell’oceano e io che ho più libero arbitrio (eccolo) sono meno libero? Perché il fiume può scorrere e serpeggiare tra i fiori e io che ho più vita ho meno libertà? Mi sento un vulcano, un Etna! Quale legge, giustizia o ragione può negare a un uomo il privilegio che hanno ruscelli, pesci, belve e uccelli?


Eh, buon Sigismondo, quanto giusto risentimento, in queste parole!
Il giovane si accorge di Rosaura, inizialmente la attacca, ma la sua reazione – «credevo d’esser la persona più sfortunata di questo mondo, ma trovo qualcuno che sta peggio di me» – lo cheta.
Sorvoliamo sull’intrico del plot e sui personaggi secondari per rimanere ai punti principali: Basilio decide di dare ancora una possibilità al naturale successore e lo libera per verificare se gli astri ci avessero azzeccato, ma soprattutto per vedere se la volontà umana possa vincere il fato. Sigismondo verrà addormentato per essere portato negli appartamenti a corte, quando si sveglierà sarà lavato, incipriato, vestito e agghindato come un dignitario di Svezia, con tanto di fascia blu e sarà comprensibilmente frastornato. Forse anche troppo – lunga scenetta davanti al trono per capire quale uso farne – data la sottigliezza d’espressione con cui a noi si era presentato, benché in abiti ferini.
Insomma, l’esperimento non avrà successo, del resto tenere un ragazzo imprigionato ai ceppi dalla nascita difficilmente prepara il terreno a una personalità docile e bendisposta.
Infatti, la sua prima impresa sarà gettare dalla finestra un servo che ha osato sfidarlo:
– «Non ne saresti capace».
– «Ah no? Eccoti accontentato». E giù!
– «Gli ho solo dimostrato che aveva torto».

Una stecca di porte verdi larga quanto il palco fa da diaframma tra lo spazio dei personaggi e quello degli attori che recitano i personaggi, tra la vita del teatro e quella del mestiere, tra l’esistenza che crediamo reale e il sogno in cui forse siamo tutti proiettati.
Alfredo Noval è un Sigismondo che nasce selvaggio e perde man mano le caratteristiche di fiera per acquisire quelle di politico intuitivo, navigato. L’interprete incarna la sua evoluzione in una linea di sviluppo bella perché graduale, saltella tra momenti di rozzezza carnale e altri di prontezza intellettuale fulminante. Ernesto Arias rende Basilio un re fermo, che prova a rovesciare le profezie, ma che non sembra davvero tormentato dal fallimento cui assisterà. Tra gli attori del Teatro Clàsico de Madrid segnalo poi, per nitore interpretativo e per ricchezza di sfumature, Angel Ruiz, il guardiano Clotaldo, unica presenza ‘amica’ per il ragazzo in catene e che lo conosce meglio del padre; e Goyzalde Nuñez, donna, che recita Clarino, sveglio come tutti i servi, anche se qui un po’ caricato nella comicità.

L’adattamento di La vida es sueño di Declan Donnellan, regista, e Nick Ormerod (scenografo e costumista) ha aperto la Stagione del Teatro Nazionale di Genova, nella bella sala avvolgente del Gustavo Modena di Sampierdarena, scelta che va nella direzione di non limitare l’offerta culturale soltanto nel centro storico delle città ma coinvolgendo i quartieri, anche con le eccellenze; l’anno scorso lo stesso teatro ospitò Grief and beauty di Milo Rau, per dire.
Donnellan è stato alcuni anni fa al Piccolo di Milano con La tragedia del vendicatore di Middleton, allestito con attori italiani; allora un testo poco frequentato di un autore minore, ora un grande classico della storia del teatro mondiale. La fila di porte c’era anche quella volta, però rosse.
In Italia senz’altro si ricorda la versione di Luca Ronconi con un grande cavallo nero stagliato su fondale oro, Franco Branciaroli nel ruolo di Basilio e Massimo Popolizio nei panni di Sigismondo, correva l’anno 2000.
Questa regia tratta il testo in versi di Calderón con maggior disinvoltura, la recitazione di tutti non enfatizza affatto la densità poetica, né eccede nella drammatizzazione, casomai si permette un’abbondanza di leggiadria, data anche dalle scelte musicali (curate da Fernando Epelde): ritorna molte volte Cuanto le gusta – cantata da Carmen Miranda nel film A date with Judy del 1948 – un motivetto spensierato in palese contrasto con ciò che si consuma in scena. Funziona anche come calmante per il protagonista che la sente portandosi in giro una radio.
È vero che la confusione tra ciò che è reale, ciò che viene spacciato per sogno a Sigismondo per convincerlo che non era desto quando hanno “testato” la sua condotta e ciò che è materia teatrale (quindi comunque sognata, in un certo senso), si presta a una presa in giro costruita sull’entra ed esci da un piano ed entra nell’altro (state tutti pensando a Inception di Nolan, lo so), perché a un certo punto nessuno sa più a cosa credere; la scena in cui si accendono di colpo le luci dietro la fascia di porte e si spengono sul proscenio e Basilio e Clarino si siedono con i secchielli di pop-corn è chiaramente un rovesciamento in cui i personaggi osservano la finzione e dietro il paravento gli attori sono gli uomini e le donne che fanno gli attori. Una idea registica che vuole sottolineare quello che in realtà sta già nel testo. A eccezione di Carmen Miranda.


Il ritmo è piuttosto indiavolato, due ore assai movimentate, costumi sgargianti e scene corali ben dirette, molto andirivieni e sbattere di porte, verdi. Si gode del suono sempre in corsa vitale dello spagnolo, e si assiste con soddisfazione alla rivolta popolare che, quando Sigismondo verrà rimesso in gabbia da Basilio, lo libererà per metterlo sul trono che legittimamente gli spetta. I sudditi troveranno ora un regnante reso saggio e astutamente machiavellico dall’esperienza di montagne russe vissuta: ora reclama la possibilità di essere artefice del proprio destino e non vittima. Finisce anche per perdonare il padre che prima voleva umiliare, e con il potere riacquistato, restaura pace e giustizia.
La vida es sueño è un bellissimo testo, filosofico nonché politico, lo è anche senza le divise militari che i rivoltosi indossano a didascalica rappresentazione estetica di un’azione di guerriglia.
Dietro il pannello c’è forse Calderón che osserva e suggerisce, gli attori escono da quelle porte come dal camerino, si mettono in mostra come manichini semoventi in vetrina, cristallizzati in una spettacolarizzazione esibita del proprio mestiere. Sognano la ribalta e la guadagnano.
Tutta l’umana fortuna passa come un sogno, bisogna approfittarne finché dura.