ANNA CRICHIUTTI | Ha debuttato il 24 ottobre in prima nazionale all’interno del Festival delle Colline Torinesi —alla 28esima edizione organizzata da TPE Teatro Astra — presso le Fonderie Limone di Moncalieri, la nuova produzione della compagnia belga Peeping Tom firmata Franck Chartier — coreografo francese, fondatore della compagnia insieme alla coreografa argentina Gabriela Carrizo.

In quest’ultima creazione la fragilità domina la scena e il titolo enigmatico è il preludio di una rottura: S 62° 58, W 60° 39 identifica le coordinate geografiche di un’isola remota dell’Antartide, Deception Island, l’isola della delusione, dell’inganno, dell’ipocrisia.
Catapultati allinterno di una scenografia che non ha più a che fare con i soliti interni perturbanti da sempre indagati nella loro poetica, si apre il sipario e ci troviamo nel bel mezzo delle acque antartiche, in un paesaggio freddo, immobile nel tempo e nello spazio, bianco. Una scenografia dall’estetica curata e iperrealista disegna un’immagine fissa e inclinata: sulla destra della scena giace il veliero della creatività, ne vediamo solo la poppa, alla deriva sugli statici ghiacci della disillusione.
Attorno a noi un vento sonoro secco e pungente pare sfiorarci la pelle, la sua forza fa oscillare la barca, alcuni superstiti tentano la sopravvivenza lottando contro gli agenti atmosferici: un uomo si cimenta nella pesca seguendo il ritmo degli archi irrequieti in sottofondo; un signore dalla barba bianca afferra con forza il tavolino per sorreggersi, un bambino di circa dieci anni con maglietta bianca a mezza manica e pantaloncini corti penzola sul bordo della barca da cui poi cade, annegando — un’immagine, quest’ultima, che forse solo a posteriori rivela la sua natura metaforica e sintomatica del dramma che S 62° 58, W 60° 39 rappresenta.

Ph. © Olympe Tits

Inizialmente, infatti, la vicenda appare semplice, ma di lì a poco la narrazione apocalittica si trasforma, improvvisamente penetrata dall’irruzione della realtà: la storia si interrompe, le luci si dilatano sul palco ed emerge dal disegno dei personaggi la personalità dei loro interpreti che contestano e mettono in discussione le scelte del regista Chartier in persona, la cui voce giunge dall’alto con tono sinistro e misterioso. Comincia così un intreccio di cornici narrative in una struttura metateatrale dove gli interpreti prendono voce per ribellarsi al trauma che alimenta l’opera del regista: sfibrato dall’insufficienza creativa che lo abita, Chartier ricerca una fantomatica verità affondando le proprie grinfie nei traumi esistenziali dei suoi attori, insinuandosi nelle loro vite private, che essi tentano di proteggere dal teatro.

È la deriva di una crisi che non trova più corrispondenza in un presente radicalmente mutato, dove i topoi classici della compagnia vengono destrutturati, la danza quasi del tutto rimossa in favore della parola che sorregge e guida la scena dall’inizio alla fine: dove stiamo andando? Forse quanto abbiamo sempre fatto, nel modo in cui lo abbiamo sempre fatto non può più essere la nostra propensione — sembra dire la pièce.
Magistrale una delle poche scene dove la danza sopravvive svelando la propria meccanica: l’assolo di MarieGyselbrecht in un contesto di oppressione, senza la presenza fisica in scena delluomo che le fa violenza.
Gli eventi che si susseguono — sempre accompagnati dal progetto sonoro di Raphaëlle Latini che privilegia gli archi e restituisce le tensioni di un’intimità rubata — sembrano tentare un’indagine attorno a temi contemporanei quali la violenza sulle donne, l’alienazione, il riscaldamento globale, la solitudine; naufragando però, spesso, in paradosso e retorica. Una donna si lamenta di aver passato gli ultimi vent’anni relegata nel ruolo di vittima femminile: “voglio essere tridimensionale” — grida sventolando una bandiera con scritto Viva la Vulva; un’altra difende una specie delicata per lecosistema tentando una respirazione bocca a bocca al pesce pappagallo che di lì a poco verrà ucciso da un membro dell’equipaggio; a Sam, l’uomo dalla barba bianca, Chartier impone il lamento per il lutto dell’amata per circa 8 minuti cui l’attore si ribella ribaltando la scena nella propria morte.
Un continuo succedersi di tentativi inconsistenti culmina nella confessione di Chartier che ammette: “non c’è più niente di artistico” / “ho finito le idee” / “questa barca rappresenta le direzioni sbagliate che si possono prendere nella vita”.

Ph. © Samuel Aranda

Gli approfondimenti interrotti fin qui esposti trovano un risvolto nel finale di cui uno straordinario Romeu Runa — artista unitosi alla compagnia nel 2020 per Dido & Aeneas, La visita — è protagonista. Qui l’attore-danzatore si spoglia in una nudità mentale — “La mia intimità non giace nel mio corpo, ma qui”, confessa indicando la sua mente — incalzando un dialogo tra sé e il demone che nasconde nei propri abissi. Incarnato nei genitali esposti, il demone rappresenta la voracità di un’arte totalizzante che diviene terreno di guerra, cui sopravvivere può diventare impresa impossibile. L’attore esprime brillantemente la bestia dimenandosi sul palco e accartocciandosi su se stesso, alternando abilmente una voce luminosa a quella profonda e inquietante dei suoi stessi abissi demoniaci.
Runa rompe poi fisicamente la quarta parete, le luci si accendono lentamente sulla tribuna, la bestia arriva a una provocazione estrema ed esprime il desiderio di “scoparsi” il pubblico. “Perché concludere con un suicidio quando si può finire in un’orgia?”. L’attore infine emerge da se stesso, nel tentativo di sopravvivere all’alienazione della creazione e chiede di essere accompagnato fuori dal teatro in quel mondo nel quale pensava di non esistere più.

Il pubblico applaude lungamente. Rimane un senso di spaesamento di fronte a un tempo che ci costringe a ripensarci non solo artisticamente, ma anche a livello intimo e personale.
Qui, per la prima volta l’orizzonte di sguardo dello spettatore-voyeur dei Peeping Tom si sposta sulla nuova indagine della compagnia, sul parto creativo e le sue dinamiche tra ispirazione e patologia, confrontandosi con le inclinazioni di questo tempo presente e la possibile deriva di chi – fuori dalla propria alienazione artistica – finisce per non esistere più.

 

S 62° 58’, W 60° 39

uno spettacolo di Peeping Tom
ideazione e regia Franck Chartier
creazione e spettacolo Eurudike De Beul, Marie Gyselbrecht, Chey Jurado, Lauren Langlois, Yi-Chun Liu, Sam Louwyck, Romeu Runa, Dirk Boelens
assistenza artistica Yi-Chun Liu, Louis-Clément da Costa
composizione sonora e arrangiamenti Raphaëlle Latini
composizione musicale e archi Atsushi Sakaï
scenografia Justine Bougerol, Peeping Tom
light design Tom Visser
coreografia Yi-Chun Liu, Peeping Tom
costumi Jessica Harkay, Yi-Chun Liu, Peeping Tom
assistente tecnico Thomas Michaux
costruzione set KVS-atelier, Peeping Tom
creazione tecnica e oggetti di scena Filip Timmerman
coordinamento tecnico Giuliana Rienzi
produzione Festival Aperto Fondazione i Teatri Reggio Emilia, Torinodanza Festival/ Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale

 

 

*PRIMAVERA PAC è il progetto della rivista che favorisce l’affiancamento e la crescita di nuovi giovani sguardi critici per la scena, per consentire al teatro e alla critica di continuare un dialogo