GIORGIA VALERI* | Rarissimo, se non unico lager in Europa collocato all’interno di una città, la Risiera di San Sabba venne riconosciuta soltanto nel 1965 come monumento nazionale dall’allora presidente della Repubblica Saragat. Quello che era un edificio adibito alla pilatura del riso costruito a fine ‘800, venne riallestito in tempo di guerra inizialmente per espletare una triplice funzione: campo di detenzione di polizia, campo di transito per gli ebrei destinati ad Auschwitz, Dachau, Buchenwald, Mauthausen e campo di detenzione per i prigionieri politici che venivano qui torturati e uccisi. Il forno crematorio, ricavato dall’essiccatoio dei cereali, venne acceso per la prima volta il 4 aprile 1944: «Nei giorni de sciroco, che per la spuza de carne umana brusada, quasi no’ se respira, te ciapa el stomigo». 

Con la fine della guerra, i nazisti in fuga fecero esplodere il forno e la ciminiera per cancellare le prove dei crimini commessi. E nella polvere dell’esplosione, anche i ricordi di quel che restava sbiadirono con il tempo, grazie a una capillare opera di rimozione e revisionismo storico della giustizia triestina.

Risiera di San Sabba

Nel 1995, in occasione del Cinquantennale della Liberazione, Renato Sarti torna nei suoi luoghi di origine per ricostruire la storia di quella struttura di cui gli era stata celata la conoscenza, la memoria fin da bambino. Di proposito. Allestisce quindi una lettura scenica, Risiera di San Sabba: La memoria dell’offesa, proprio nell’ex lager nazista, tra le diciassette minuscole celle rimaste intatte. Tra i partecipanti figura anche Giorgio Strehler, all’epoca suo mentore. 

Giorgio Strehler alla Risiera di San Sabba

Il testo della lettura viene poi adattato dallo stesso Sarti per il teatro, con il titolo I me ciamava per nome: 44.787, “​​da testimonianze di sopravvissuti alla deportazione e allo sterminio nazifascista raccolte da Marco Coslovich e Silva Bon dell’Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione del Friuli-Venezia Giulia”, come si legge in calce al volume edito. Sulla copertina, il disegno della piantina della Risiera inciso da un alpino sul muro di una cella, lo stesso con cui si apre lo spettacolo che, a distanza di vent’anni, Sarti continua a presentare al suo pubblico del Teatro della Cooperativa, segnalato speciale e premio produzione Riccione per il teatro 1995. Il direttore artistico e fondatore del Teatro della Cooperativa, come dimostra il suo portfolio artistico, ha dedicato il suo intero lavoro a un teatro di parola, popolare e al servizio del pubblico, per fornire degli strumenti per leggere la realtà quotidiana. E lo ha fatto immergendocisi interamente, attraverso il racconto diretto dei testimoni, mai mediato.

I me ciamava per nome, dunque, possiede ancora la forza straordinaria della lettura originaria inscenata tra i corridoi della Risiera. Racconta, in una prova di teatro-documento che ben si adatta a ogni luogo che la ospita – dal Piccolo Teatro allo stesso Teatro della Cooperativa, persino a Montecitorio – e presenta senza retorica le voci di deportati e nazisti che hanno raccontato le vicende a lungo taciute dalla comunità triestina. 

Nei vari adattamenti, andati in scena negli anni, Renato Sarti è stato affiancato da diversi attori: il testo, originariamente pensato per quattro interpreti e un narratore, nell’ultimo allestimento al Teatro della Cooperativa ha visto la presenza del solo Sarti e di Valentina Picello.
Scenografia scarna, una scrivania/bancone nero dietro cui siedono i due interpreti, una sedia su cui Sarti/narratore si appoggia per commentare immagini e video che appaiono nello schermo retrostante. Un vessillo dell’ANPI a lato del palco. I movimenti sono limitati ai soli spostamenti di Sarti da una postazione all’altra, per sottolineare il passaggio da narratore a interprete delle testimonianze. Leggono entrambi direttamente dai documenti, alternandosi la voce e accompagnando le varie sezioni dello spettacolo: I precedenti –  Collaborazionismo – Per destinazioni ignore – Io – Gli zingarii – Musulmani – Risiera.
Le voci della notte – Ravensbruck – Il rientro – Vittime non innocenti – Sogni incubi e alcune riflessioni.
Per ciascuna, video testimonianze, foto dei carnefici accompagnate da un testo implacabile, che ne acuisce e deforma i tratti. L’espediente del triestino, in contrasto con un italiano cronachistico, suggerisce il passaggio tra le testimonianze dirette delle vittime alla ricostruzione storica degli eventi.

A Picello vengono assegnate principalmente testimonianze femminili: non si alza mai dalla propria postazione, ma il cambio di voce, d’intonazione, l’uso del linguaggio del corpo restituisce dignità e una piena rappresentazione immaginifica dei testimoni. Nei suoi gesti rivivono le detenute morte a Ravensbrück, dopo giorni, mesi di agonia. Tutta la vicenda viene scandagliata, in ogni suo anfratto, ripescando nel marasma dell’occulto e del rimosso per restituirlo a una luce fioca e impietosa che non lascia spazio a sentimentalismo. 

“Siamo in pochi, la generazione sta andando. Però la nostra Risiera potrebbe anche essere un punto di riferimento, d’incontro, di solidarietà” concludono. Non solo quindi commemorazione, ma azione politica e presa di posizione netta per una questione che, nonostante gli avvenimenti recenti, non smette di presentare il conto agli eredi di un capitolo oscuro della storia e che è vitale continuare a ricordare per ottenere una chiave di lettura anche del presente.

 

I ME CIAMAVA PER NOME: 44.787

testo e regia Renato Sarti
da testimonianze di ex deportati raccolte da Marco Coslovich e Silva Bon per l’IRSREC FVG
con Valentina PicelloRenato Sarti
brani musicali Alfredo Lacosegliaz, Moni Ovadia
produzione Teatro della Cooperativa 
con il sostegno ANED ANPI

Teatro della Cooperativa, Milano | 26 gennaio 2024

 

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.