ELENA SCOLARI | “Allora che si fa?”. “Non facciamo niente. È più prudente”. Queste le battute iniziali di Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot. Samuel Beckett, invece, era tutt’altro che prudente: ha rivoluzionato la letteratura e il teatro, ha creato un modo completamente nuovo di rappresentare l’incomunicabilità e l’assenza di significato della vita. Ha inventato un genere, il teatro dell’assurdo.
E noi lo ricordiamo per questo.
Poco si parla, invece, di altri aspetti della sua vita affrontati in Prima danza, poi pensa – Alla ricerca di Beckett, il film di James March scritto da Neil Forsyth e appena uscito nelle sale con Fionn O’shea e Gabriel Byrne, rispettivamente nei panni del protagonista da giovane e da anziano: si racconta del suo pessimo rapporto con la madre, una rigida donna protestante irlandese, fredda e moralista, dalla quale fuggirà a gambe levate subito dopo la morte del padre; ci si sofferma sul suo impegno nella Resistenza francese contro il nazismo; si sottolinea la sua ammirazione per Joyce; si narra del rapporto con due donne importanti, moglie e amante.


Il teatro non c’è. C’è solo per fuggirne, fisicamente. Nel promettente inizio del film Beckett è seduto in platea con la moglie in attesa dell’annuncio del vincitore del Nobel per la Letteratura (siamo nel 1969): il premio va a lui ma lo scrittore non prende affatto con entusiasmo la notizia. Sembra salire sul palco per il discorso di rito e invece si arrampica fin sopra la graticcia – fracassando anche un faro – per ritrovarsi in un luogo indefinito dove incontra il suo doppio, più precisamente la sua coscienza. Nella cava di pietra del suo inconscio, con tutti i meandri d’ordinanza, l’altro Beckett elenca le persone significative della sua vita con le quali Samuel si sente inesorabilmente in colpa. Il drammaturgo, infatti, più che pensare di non meritare il premio, vorrebbe usare il denaro del Nobel come forma di risarcimento per chi lo ha incoraggiato, chi gli è stato accanto, per quelli  che ha tradito o che ha rifiutato, ma chi scegliere? Così si aprono i flashback che compongono il film, intitolati con i nomi dei personaggi: la madre May, Lucia, Alfy, Susanne, Barbara.
L’idea della fuga dal teatro è un bel guizzo creativo, l’idea del doppio/coscienza nella caverna è uno stratagemma.

Il film avanza e retrocede tra gli excursus nella gioventù di Beckett – la ribellione alla madre, l’incontro con James Joyce in un Café a Parigi, l’amicizia con Alfred Peròn che lo avvicinerà alla Resistenza, l’amore per Susanne – e le fraterne occhiate di comprensione del custode della caverna, coetaneo. Siamo radicali: per raccontare gli artisti è spesso più fruttuoso scindere la biografia dall’opera: se ancora ci avvince capire perché ci ostiniamo ad aspettare Godot, del fatto che Beckett non abbia saputo scegliere tra moglie e amante, che sia stato un po’ vigliacco nel barcamenarsi tra queste due donne intelligenti e forti ci importa molto meno. Anche se Sandrine Bonnaire e Maxine Peake sono entrambe convincenti, soprattutto Bonnaire, che sostiene un ruolo articolato e di sofferente consapevolezza.


Il giovane Samuel, Fionn O’shea, è tormentato, magro, pensa molto dietro ai suoi occhialini tondi ma è fermo e determinato: sa per esempio di non volersi accollare Lucia, la figlia di Joyce clinicamente matta che ama tanto ballare. Al vecchio Beckett, invece, Byrne dona un’aria tra lo svagato e il rassegnato, pur avendo raggiunto il successo rimane sempre qualcosa che gli sfugge e che sembra rincorrere con l’irrequietezza; nella parte dell’alter, un po’ grillo parlante un po’ angelo custode, Byrne ha uno sguardo bonario e accomodante: a questa metà nulla della mente dello scrittore è celato.

Il regista aveva già al suo attivo La Teoria del tutto, pellicola biografica – non priva di melassa – sul cosmologo e fisico Stephen Hawking, che valse l’Oscar a Eddie Redmayne. Fotografia, ambienti, costumi e luci sono molto eleganti e al cinema contano, ma contano anche i contenuti e come Estragone, anche March è stato troppo prudente: scegliendo di trascurare il frutto del principale talento di Beckett (il teatro) finisce per impallidire la figura di uno scrittore che ha davvero segnato un punto di svolta culturale nel Novecento la cui eco è ancora distintamente udibile.

Aidan Guillen nel ruolo di James Joyce

Il punto cruciale (e un po’ assurdo, in fondo) è che un regista non consideri che di uno scrittore (ma di un artista in generale) è quasi sempre interessante l’opera molto più della vita. Infatti March costruisce il momento migliore del film con il monologo di Joyce che descrive cosa voleva trasferire nell’Ulisse: gli odori, l’aria, l’atmosfera, gli abitanti, lo spirito profondo di Dublino. Guarda fuori dalla finestra del suo studio e mentre cerca di dissuadere Beckett dallo scrivere sta in realtà svelando al giovane studente il calore della materia che può diventare grande letteratura. Qui sta la vera danza.

PRIMA DANZA, POI PENSA
Alla ricerca di Beckett

(tit. orig. DANCE FIRST – A Life of Samuel Beckett)
un film di James March
con Gabriel Byrne, Fionn O’shea, Sandrine Bonnaire, Aidan Gillen, Maxine Peake, Bronagh Gallagher, Robert Aramayo, Léonie Lojkine, Gráinne Good
scritto da Neil Forsyth
distribuito da BIM Distribuzione